Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

Archivio per la categoria Infanzia ed Adolescenza

Disturbo dell’ Alimentazione

dca bni

“Il cibo, fin dalla nascita, è strettamente mescolato all’esperienza di rapporti interindividuali ed emotivi, e non è possibile distinguere rigorosamente tra i suoi aspetti fisiologici e psicologici. Anche per le persone normali il cibo non si limita mai ai soli aspetti biologici. Non esiste società umana che tratti il cibo razionalmente in rapporto all’ambiente, in cui cioè si mangi unicamente in base alla disponibilità, alla commestibilità e al valore nutritivo degli alimenti…”.
Hilde Bruch

DEFINIZIONE

La Classificazione diagnostica 0-3 descrive il disturbo di alimentazione (Feeding Disorder, FD) che può manifestarsi in momenti diversi dell’infanzia, come la difficoltà del bambino a stabilire patterns regolari di alimentazione con un’adeguata immissione di cibo e a regolare la propria alimentazione con gli stati fisiologici di fame e sazietà (Diagnostic Classification of Mental Health and Developmental Disorders of Infancy and Early Childhood – Revised Zero to Three, National Center for Clinical Infant Programs, 1994).
Oggi, il FD viene definito come un disturbo di relazione (Chatoor, Ganiban, Colin, Plummer, e Harmon, 1998; Goodlin-Jones & Ande, 2001). Le difficoltà che la diade caregiver-bambino incontrano al momento del pasto possono essere dovute a vari fattori, come la mancanza di una buona intesa tra genitore e bambino, le difficoltà dei genitori nel sostenere lo sviluppo dell’autonomia del bambino attraverso la regolamentazione dell’assunzione di cibo, l’eccessivo controllo da parte dei genitori, la carente conoscenza delle dinamiche alimentari, il temperamento impegnativo del bambino che può opporsi a mangiare la quantità di cibo attesa dai genitori (Davis, Levitan, Smith, Tweed, e Curtis, 2006).
Studi recenti descrivono particolari caratteristiche di bambini con un disturbo della nutrizione per quanto riguarda l’assunzione di cibo e il comportamento alimentare: nei primi anni di vita i bambini con difficoltà di crescita presentano un’assunzione di cibo significativamente inferiore rispetto ai bambini della stessa età che non presentano tale sintomatologia, sebbene le madri tendano ad alimentarli allo stesso modo, o anche maggiormente ,rifiutano il cibo in misura maggiore, sembrano presentare risposte anomale ai bisogni di fame e sazietà, manifestano minori richieste di essere alimentati e maggiori difficoltà a regolare e stabilizzare i loro ritmi alimentari rispetto ai bambini non affetti da tale disturbo.
In setting clinici si osservano i seguenti disturbi dell’alimentazione:
Sviluppo ritardato o assente delle capacità di alimentazione;
Difficoltà di gestione o a tollerare i liquidi o generi alimentari;
Riluttanza o rifiuto di mangiare in base a gusto, consistenza e altri fattori sensoriali;
Mancanza di appetito o interesse per il cibo;
Utilizzo dei comportamenti alimentari come auto-conforto, calmante o stimolante.

EZIOLOGIA
L’esatta eziologia e i fattori di mantenimento dei disturbi alimentari in età evolutiva sono ancora poco chiari. Ciò è dovuto allo scarso numero di ricerche condotte in questo ambito. Disturbi dell’alimentazione e comportamento alimentare con manifestazioni cliniche simili possono avere diverse eziologie che richiedono necessariamente diversi interventi, da qui si può ben capire come il mancato, ritardato, o errato riconoscimento diagnostico, dovuto alla variabilità dei criteri diagnostici da un sistema all’altro, possa avere ripercussioni sul corretto trattamento del disturbo.
Il background medico del bambino, il temperamento, lo sviluppo, e le esperienze possono contribuire, causando disturbi del normale comportamento alimentare, individualmente e/o in modo combinato con fattori relativi ai genitori, alla famiglia e all’ambiente, che si inseriscono in un periodo caratterizzato da rapidi cambiamenti nello sviluppo biologico, affettivo e cognitivo del bambino.
Lask e Bryant-Waugh (2000) propongono un modello di sviluppo del Disturbo Alimentare Precoce nel quale fattori biologici, genetici, individuali, socioculturali, familiari e stressor agiscono in modo interconnesso.

COME SI MANIFESTANO
La definizione e la diagnosi di un disturbo alimentare nei bambini rimangono in molti casi problematiche. I criteri diagnostici sono in costante stato di revisione e i sistemi di classificazione che trattano l’argomento sono vari.
Proponiamo qui la classificazione concettualizzata da Irene Chatoor, una dei massimi esperti nel campo.

CRITERI DIAGNOSTICI PER ANORESSIA INFANTILE (6 mesi-3 anni):

1. Rifiuto di mangiare adeguate quantità di cibo per almeno un mese.
2. Insorgenza del rifiuto del cibo si verifica spesso durante il passaggio dall’alimentazione materna all’auto-alimentazione, tipicamente tra i 6 mesi ei 3 anni di età.
3. Non comunica la fame, manca di interesse per il cibo, ma mostra interesse per l’esplorazione e/o l’interazione tra i caregiver.
4. Mostra significativi segnali di rallentamento della crescita.
5. Il rifiuto del cibo non ha seguito un evento traumatico.
6. Il rifiuto del cibo non è dovuto ad una sottostante malattia medica.

CRITERI DIAGNOSTICI PER AVVERSIONE SENSORIALE AL CIBO (6 mesi-3 anni)

1. Rifiuto persistente di mangiare determinati alimenti con particolari gusti, consistenza, odori, temperatura e/o per come si presenta per almeno 1 mese.
2. Insorgenza del rifiuto del cibo durante l’introduzione di un diverso tipo di cibo (per esempio, può bere un tipo di latte ma rifiutarne un altro, può mangiare le carote ma rifiuta i fagiolini; può mangiare alimenti croccanti, ma rifiutare il cibo frullato).
3. Le reazioni avversive dei bambini possono variare da una smorfia a conati di vomito, vomito o sputare il cibo.
4. Dopo una reazione di avversione, i bambini di solito si rifiutano di continuare a mangiare quel cibo particolare e frequentemente generalizzano e rifiutano di mangiare altri cibi con aspetto, colore e odore simili.
5. Sono riluttanti a mangiare nuovi cibi ma mangiano volentieri i loro cibi preferiti.
6. Senza integrazioni, mostrano specifiche carenze nutrizionali (per esempio, proteine, vitamine, zinco, ferro), ma generalmente non mostrano ritardi nella crescita e possono essere sovrappeso.
7. Devono avere specifiche carenze nello sviluppo orale-motorio e nel linguaggio parlato.
8. Durante i primi anni di scuola possono mostrare ansia a scuola riguardo ai cibi ed evitano situazioni sociali che comportano il mangiare.
9. Possono avere altre difficoltà sensoriali (tatto, udito, vista).
10. Il rifiuto non è correlato ad allergie alimentari o ad altre condizioni mediche.

CRITERI DIAGNOSTICI DEL DISTURBO DI ALIMENTAZIONE POST-TRAUMATICO

1. Caratterizzato da un esordio acuto di un consistente rifiuto del cibo.
2. Il rifiuto del cibo segue un evento traumatico o ripetuti episodi traumatici all’orofaringe o tratto gastrointestinale (per esempio, soffocamento, vomito, inserimento di tubi nasogastrico o endotracheale, aspirazione) che attivano disagio intenso nel bambino.
3. Il rifiuto costante di mangiare si manifesta in uno dei seguenti modi:
rifiuta di bere dal biberon, ma può accettare il cibo offerto al cucchiaio (anche se rifiuta sempre di bere dal biberon quando sveglio vi può bere quando ha sonno o addormentato), o
rifiuta il cibo solido, ma accetta il biberon, o
rifiuta tutta l’alimentazione orale.
4. Il ricordo dell’evento traumatico causa disagio, come manifestato da uno o più dei seguenti elementi:
può mostrare angoscia anticipatoria quando preparato per l’alimentazione;
mostra intensa resistenza quando ci si avvicina con il biberon o il cibo, e/o
mostra intensa resistenza a deglutire il cibo che ha nella bocca.
5. Il rifiuto del cibo rappresenta una minaccia acuta o a lungo termine alla nutrizione del bambino, alla salute, alla crescita.

TRATTAMENTO
Diagnosi e trattamento dei disturbi alimentari dell’infanzia richiedono necessariamente un team interdisciplinare di professionisti: nutrizionista, gastroenterologo, psicologo, neuropsichiatra infantile, pediatra, terapista professionale del linguaggio, al fine di una globale valutazione del bambino.
Trattamenti e interventi basati sulle teorie di condizionamento operante (terapia cognitivo-comportamentale) sono stati segnalati per essere efficaci nella gestione dei disturbi di alimentazione (Benoit et al., 2000; Byars et al., 2003; Irwin et al., 2003;. Kerwin, 1999; Linscheid, 2006; Piazza, 2008; Piazza e Carroll- Hernandez, 2004; Williams et al., 2007). I bambini che hanno serie difficoltà a mangiare possono, quindi, beneficiare di programmi di modifica del comportamento. Questi interventi puntano ad aumentare la frequenza di comportamenti adattivi e diminuire la frequenza dei comportamenti disadattivi (ad esempio spingere via il cibo).
Il trattamento prevede, inoltre, una fase di psicoeducazione per i genitori, nella quale vengono insegnate strategie di gestione del momento del pasto, da un punto di vista pratico.
Fondamentale importanza ha la gestione della relazione genitore-bambino durante il pasto e non; questa viene monitorata nell’ambiente quotidiano, e se necessario sostenuta e modificata sotto la supervisione del clinico.

Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività

deficit-attenzioneDefinizione
Il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD, acronimo in inglese di “Attention Deficit/Hyperactivity Disorder”) è un disturbo evolutivo dell’autocontrollo caratterizzato, secondo i criteri del Diagnostic and Statistical Manual Of Mental Disorders (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – DSM-IV, 1994; DSM-IV-TR, 2000), da disattenzione e impulsività/iperattività, presenti in proporzione variabile.
I bambini che presentano questo problema fanno molta fatica a mantenere l’attenzione e a concentrarsi, hanno la tendenza ad agire senza pensare a quello che stanno facendo, hanno delle difficoltà a modificare il loro comportamento sulla base dei loro errori e non riescono a fare attività tranquille per lunghi periodi di tempo.
Questi problemi derivano dall’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento in funzione del trascorrere del tempo, degli obiettivi da raggiungere e delle richieste dell’ambiente.
E’ importante sapere che l’ADHD non è una normale fase di crescita che ogni bambino deve superare, non è nemmeno il risultato di una disciplina educativa inefficace, né tanto meno un problema dovuto alla «cattiveria» del bambino.
L’ADHD è un vero disturbo, per l’individuo stesso, per la famiglia e per la scuola, e spesso rappresenta un ostacolo nel conseguimento degli obiettivi personali. E’ un problema che genera sconforto e stress nei genitori e negli insegnanti i quali si trovano impreparati nella gestione del comportamento del bambino.

Principali caratteristiche del problema
Disattenzione:
Mostra un’evidente difficoltà a rimanere attento o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo sufficientemente prolungato.
Il problema risulta maggiormente evidente nel mantenimento dell’attenzione (attenzione sostenuta), soprattutto durante attività ripetitive o noiose.
Sono presenti frequenti passaggi da un gioco ad un altro, senza completarne alcuno.
A scuola si manifestano evidenti difficoltà nel prestare attenzione ai dettagli (attenzione focale): fa banali “errori di distrazione”, e i lavori sono incompleti e disordinati.
Sembra che non ascolti o che abbia la testa da un’altra parte quando gli si parla direttamente.
Fa fatica a gestire il proprio materiale scolastico: è estremamente disordinato e perde frequentemente gli oggetti.
Viene facilmente distratto da suoni o da altri stimoli irrilevanti in quel momento.
Mostra ridotte capacità esecutive di organizzazione e pianificazione (compiti scolastici, attività quotidiane, gioco).
Evita o è riluttante a impegnarsi in compiti che richiedono di sostenere uno sforzo cognitivo protratto (il momento dei compiti diventa molto frustrante per bambino e genitori).
Frequentemente non porta a termine attività iniziate.

Malgrado queste osservazioni, le ricerche sono concordi nell’affermare che i bambini con ADHD non sono più distraibili di altri (Barkley, 1998). Sembra che le problematiche attentive diventino evidenti in particolare quando il compito da svolgere non risulta attraente e motivante per il bambino (Millich & Lorch, 1994).

Impulsività:

Ha difficoltà a dilazionare una risposta, ad inibire un comportamento inappropriato, ad attendere una gratificazione.
Risponde troppo velocemente, a discapito dell’accuratezza delle loro risposte.
Interrompe frequentemente gli altri quando stanno parlando e si comporta in modo invadente verso gli altri (irrompe nei giochi e nelle conversazioni degli altri).
Non riesce a stare in fila e attendere il proprio turno.
Intraprende azioni pericolose senza considerare le possibili conseguenze negative.

Secondo alcuni autori (Barkley, 1997) l’impulsività è la caratteristica distintiva dell’ADHD, che rimane abbastanza stabile durante lo sviluppo (sebbene conosca diverse forme a seconda dell’età) ed è presente anche negli adulti con ADHD.

Iperattività:
Mostra un eccessivo livello di attività motoria o vocale.
Manifesta continua agitazione, difficoltà a rimanere seduto e fermo al proprio posto; se rimane seduto si agita sulla seggiola, muovendo mani, gambe, tamburella con le dita.
Sembra “guidato da un motorino”: sempre in movimento sia a scuola che a casa, durante i compiti e il gioco.
Molto spesso i movimenti di tutte le parti del corpo (gambe, braccia e tronco) non sono armonicamente diretti al raggiungimento di uno scopo (movimento afinalistico).
Spesso parla eccessivamente.
Ha difficoltà a giocare e impegnarsi inattività tranquille in modo quieto.

L’iperattività è considerata una dimensione comportamentale lungo la quale i bambini (ma anche gli adulti) si possono collocare tra il polo calmo-ben organizzato e il polo irrequieto-inattento (Sandberg, 1996; Nisi, 1986; Epstein, Shaywitz et al. 1991): si tratta quindi di un continuum lungo il quale tutte le persone trovano una loro collocazione e in cui, naturalmente, i bambini con DDAI occupano una posizione estrema.

Sintomi secondari e disturbi associati
I bambini con ADHD manifestano anche altri comportamenti disturbanti ritenuti secondari poiché si presume derivino dall’interazione tra le caratteristiche patognomoniche del disturbo e il loro ambiente. Questi bambini sono maggiormente a rischio per altre problematiche psicologiche. Circa il 44% presenta almeno un altro disturbo, il 32% ne presenta altri due e l’11% altri tre (Szatmari, Offord & Boyle, 1989). In particolare: tra il 20% e il 56% presentano Disturbo della Condotta, circa il 35% manifestano Disturbo Oppositivo/Provocatorio, il 25% soffre di Disturbi dell’Umore e un altro 25% di Disturbi d’Ansia.

La prevalenza dell’ADHD non è definibile in modo certo, poiché nei diversi Paesi vengono impiegati differenti criteri diagnostici e strumenti di valutazione.
Diverse ricerche riportano che il problema da deficit dell’attenzione interessa il 5-6% dei bambini in età scolare. Questa condizione è più diffusa tra i maschi che tra le femmine (rapporto 3:1 nella popolazione generale e 9:1 nella popolazione clinica), nelle bambine è spesso diagnosticata in un’età superiore rispetto ai bambini.

Eziologia
Ancora sembrano non esserci cause chiare e definite; tuttavia, sono emerse argomentazioni convincenti a favore dell’ipotesi che l’ADHD sia un problema di natura prevalentemente neurobiologica. I dati sembrano confermare il ruolo di fattori genetici generalmente in linea maschile. L’ipotesi maggiormente accreditata sottolinea una disfunzione neurologica causata da livello inferiore di attivazione neurochimica cerebrale (Ross & Ross, 1982). Le ridotte quantità di neurotrasmettitori cerebrali rallenterebbero la trasmissione dei messaggi intercellulari.
La maggior parte delle ricerche scientifiche che indagano le cause riguardano la genetica. Le ragioni derivano da una serie di interessati risultati ottenuti su familiari di bambini con ADHD e dalla genetica molecolare. Infatti, il 57% dei genitori di bambini con ADHD presenta lo stesso disturbo; percentuali che sono da 6 a 12 volte superiori rispetto all’incidenza del disturbo nella popolazione normale. Secondo un ampio studio di Goodman e Stevenson (1989), la percentuale di causalità dell’ADHD attribuibile a fattori genetici si aggira tra il 70% e il 91%, mentre il restante 10%-30% è attribuibile a fattori ambientali. Sembra pertanto plausibile ipotizzare che l’insorgenza del disturbo sia da attribuire, per la maggior parte, a fattori ereditari.
D’altro canto, la gravità, l’evoluzione e la prognosi dei sintomi dipendono da fattori legati all’educazione e all’ambiente sociale in cui si trova inserito il bambino (Barkley, 1998). Nello specifico, un ruolo rilevante sembrano averlo una serie di variabili sociali come status educativo/occupazionale della famiglia, clima familiare, regime alimentare, caratteristiche interpersonali familiari, fattori di natura biologica non ereditari (modificazioni fisiologiche verificatesi dopo la nascita del bambino) e caratteristiche dell’interazione genitore-bambino.

Trattamento
Nonostante una vasta letteratura scientifica sostenga l’efficacia dell’intervento farmacologico con stimolanti per il trattamento di bambini con ADHD, si sente la necessità di individuare interventi di tipo psicosociale che risultino di chiara efficacia. Ad oggi esistono evidenze sperimentali che sottolineano l’utilità degli interventi di tipo cognitivo-comportamentale ed in particolare del Parent Training (intervento con i genitori) e dell’intervento comportamentale in classe, entrambi classificati «trattamenti empiricamente validati» (Pelham, Wheeler e Chronis, 1998). Da quanto emerge dalla letteratura scientifica, infatti, il trattamento di maggior efficacia è quello multimodale, cioè un trattamento che implica il coinvolgimento di scuola, famiglia e bambino stesso, oltre, se risulta necessario, ad un intervento di tipo farmacologico.
Questo tipo di intervento combina l’insegnamento di strategie cognitive, per esempio le tappe del problem-solving e l’automonitoraggio, con tecniche di modificazione del comportamento, come, ad esempio, la gestione di rinforzi e conseguenze negative.
L’approccio è caratterizzato da una dettagliata valutazione delle risposte problematiche e delle condizioni ambientali che le elicitano e mantengono, delle strategie per produrre un cambiamento nell’ambiente circostante e quindi nel comportamento dei genitori; alla fine dell’intervento viene fatta una valutazione dell’efficacia del trattamento. Durante un trattamento di tipo comportamentale, sia le contingenze ambientale positive, sia quelle negative che incrementano o decrementano la frequenza di alcuni comportamenti sono identificate e quindi modificate nel tentativo di far diminuire i comportamenti “problema” e far aumentare quelli di tipo adattivo.
TRAINING AUTOREGOLATIVO. E’un’intervento cognitivo-comportamentale che propone l’insegnamento di diverse tecniche tra cui le autoistruzioni verbali, il problem solving; con l’obiettivo di sviluppare il dialogo interiore per regolare il proprio comportamento, sensibilità e consapevolezza metacognitiva, cioè di riflessione sul proprio comportamento.
PARENT TRAINING. L’approccio cognitivo-comportamentale prevede la formazione di competenze educative nei genitori (parent training), definita da alcuni autori (Cantwell, 1996) come la condizione sine qua non per il trattamento dell’ADHD. Questo intervento è basato sulla modificazione del comportamento dei genitori; si fonda sulla teoria dell’apprendimento sociale, sviluppata per genitori di bambini non cooperativi, oppositivi e aggressivi (Vio, Marzocchi & Offredi, 1999). Consiste nel coinvolgimento dei genitori nel processo educativo, riabilitativo e terapeutico attraverso l’insegnamento delle abilità necessarie per affrontare efficacemente situazioni familiari e scolastiche problematiche e acquisizione di un atteggiamento orientato al problem solving. I genitori acquisiranno un ruolo attivo nell’organizzazione della vita sociale del bambino, facilitando l’accordo fra adulti nell’ambiente in cui il bambino si trova a vivere (insegnanti e altri educatori). Ai genitori viene insegnato a dare chiare istruzioni, a rinforzare positivamente i comportamenti accettabili, a ignorare alcuni comportamenti problematici, e a utilizzare in modo efficace le punizioni.

http://www.aidaiassociazione.com/

Fobia Scolastica

fobia scuola

La Scuola è un’istituzione che rappresenta uno degli ambienti di vita dei figli che contribuiscono al determinarsi della loro personalità, in termini di sicurezza, autonomia, autostima ecc, grazie alle esperienze legate ai rapporti con i coetanei, con gli insegnanti e con i risultati scolastici. Si intuisce quindi che si tratta di un luogo molto importante che può generare in molte occasioni soddisfazioni e in molte altre delusioni, una vera e propria palestra di vita necessaria alla crescita dei nostri figli. A volte le delusioni possono essere così significative da provocare nei ragazzi difficoltà che si muovono lungo un continuum che va dal semplice disagio ad andare a scuola per un’interrogazione ad un vero e proprio rifiuto scolare compromettente dal punto di vista del funzionamento generale e sociale del bambino.

DEFINIZIONE

Nonostante il DSM IV non stabilisca dei criteri specifici riguardo alla definizione della Fobia scolastica il rifiuto scolare indica una condizione emotiva cheha un’identita ben chiara: si tratta del disagio, provocato da ansia e/o timore eccessivi, che coglie il soggetto nel momento di andare a scuola e/o durante le ore scolastiche e si caratterizza per i seguenti comportamenti problematici e sintomi psicosomatici:

elevata reazione di ansia quando il bambino esce da casa, arriva davanti alla scuola, o entra in classe, fino a veri e propri sintomi da panico;
manifestazione di una serie di sintomi psicosomatici (vertigini, mal di testa, tremori, tachicardia, nausea, vomito, diarrea, mal di pancia, dolori alle spalle, al torace, etc);
il livello di ansia può essere elevato fin dalla sera precedente ed il sonno può venire disturbato da incubi o risvegli improvvisi.
Il livello di ansia è così elevato che la frequenza regolare delle attività scolastiche viene compromessa seriamente ed in maniera persistente. In un’ottica d’intervento, si rivela particolarmente utile ed efficace adottare un modello che fornisca delle informazioni rispetto alla funzione che il comportamento di rifiuto della scuolariveste per il soggetto. Il modello funzionale del rifiuto scolare di Kearney e Silverman (1996) e di Kearney (2000; 2006) individua quattro profili che evidenziano le variabili che possono mantenere il problema ovvero:

evitamento di situazioni o oggetti specifici che provocano paura o ansia;
evitamento di situazioni sociali ansiogene;
richiesta di una maggior vicinanza ed attenzione da parte delle figure significative;
ricerca di rinforzi positivi al di fuori della scuola.
L’età d’esordio della fobia scolastica è di solito intorno ai 5-6 anni ma in alcuni casi anche intorno ai 10-11 anni e in adolescenza tra i 12 e i 15 anni, coincide spesso con il passaggio dalla Materna alla Primaria, dalla Scuola Primaria alla Scuola media e dalla Scuola Media alla Scuola Superiore.

La Fobia scolastica si può ricondurre ad Ansia da Separazione o associata ad altra fobia, in particolare alla Fobia Sociale o può essere la manifestazione secondaria ad una condizione medica generale.

Fobia scolastica associata all’ansia di separazione: l’entrata a scuola rappresenta il primo vero e proprio distacco dalla famiglia e questo può generare nel bambino la paura che a lui o ai genitori possa accadere qualcosa di brutto quando si allontanano da loro.
Fobia scolastica associata ad altra fobia: ovvero una fobia specificamente correlata alla scuola o più in generale ad una fobia sociale. Questi soggetti di solito rifiutano la scuola da più grandi attuando un comportamento di evitamento più pervasivo. Tale paura potrebbe essere dovuta ad esempio ai fallimenti scolastici o alle difficoltà a relazionarsi con i coetanei. In questi casi si evidenzia una paura che fa seguito ad esperienze relazionali negative vissute realmente o interpretate come tali, oppure immaginate.
Fobia Scolastica come disturbo secondario ad una condizione medica generale: Un caso particolare riguarda la fobia scolastica come disturbo secondario ad una condizione medica generale, per cui a causa di un problema medico, parzialmente invalidante (ma comunque compatibile con la vita scolastica) il ragazzo evita di andare a scuola per paura di manifestare i sintomi della malattia di fronte agli altri o per il timore (infondato) di non farcela a causa delle difficoltà di tipo fisico.
Spesso la famiglia è molto coinvolta da questo problema e sperimenta tutte le strade possibili per spingere i figli ad andare a scuola. A volte intervengono anche nonni, zii, cugini e, in alcune realtà di paese, anche i vicini di casa, in una specie di processione mattutina in camera del ragazzo/a che, di conseguenza, tiene in scacco tutte quelle persone che si preoccupano per lui/lei. Quando la fobia scolastica persiste e sfocia in un’evasione scolastica, la scuola può segnalare il caso ai servizi sociali che si uniranno a tutta la folta schiera di persone, insieme anche ad insegnanti e dirigente scolastica, interessati al giovane e alla sua fobia scolastica.

Non sempre l’intervento delle persone di fiducia è disfunzionale, ma se lasciato al caso può fungere da mantenimento al disturbo, è quindi necessario seguire un iter ben preciso previsto dal trattamento che conduce il ragazzo a raggiungere gradualmente le sue autonomie e la possibilità di rientrare a scuola anche avvalendosi delle persone che attivamente il ragazzo è solito coinvolgere.

FATTORI SCATENANTI

Molti possono essere i fattori scatenanti delle manifestazioni tipiche della fobia scolastica tra cui:

Il passaggio da un livello scolastico all’altro;
eventi di vita stressanti (come la malattia propria o di un familiare, la separazione tra i genitori o dai genitori);
relazioni conflittuali nella famiglia;
un legame problematico con uno dei genitori;
difficoltà con il gruppo dei pari (episodi di bullismo, ecc)o con un insegnante (ansia da prestazione);
il ritorno a scuola dopo una lunga interruzione o vacanza.
TRATTAMENTO

Il trattamento della fobia scolastica verrà valutato sulla base dell’origine del disturbo:

se l’origine è legata all’ansia da separazione l’intervento sarà analogo all’’intervento previsto dal disturbo d’ansia da separazione (clic per leggere il trattamento del disturbo d’ansia da separazione) con particolare riferimento all’obiettivo legato alla frequentazione della scuola.
Se l’origine è legata alla Fobia Sociale l’intervento sarà prevalentemente sul ragazzo con un minimo coinvolgimento dei genitori volto a offrire loro strumenti per affiancare e rinforzare il ragazzo.
Se l’origine è legata ad una condizione medica generale il lavoro sarà affrontato sia con i genitori, sia con il ragazzo e verrà coinvolto anche il personale medico per avere tutte le informazioni utili alla terapia.

Una parte del trattamento sarà specifica e legata all’origine e una parte meno specifica, sarà indipendente dall’origine del disturbo e rivolta a tutti e tre i casi.

La terapia cognitiva-comportamentale si è dimostrata molto efficace per i disturbi di ansia, numerosi sono i dati disponibili in letteratura rispetto a molteplici studi controllati.

Nello specifico il trattamento cognitivo-comportamentale da utilizzare (rivolta a tutti e tre i casi) con bambini che rifiutano la scuola si basa sui fattori che mantengono il problema. In generale l’intervento è individualizzato e prevede vari passi e tecniche. Tale percorso prevede il coinvolgimento dei genitori e, dove possibile, della scuola.

OSSERVAZIONE ATTRAVERSO L’ANALISI FUNZIONALEattraverso schede di monitoraggio fornite ai genitori verranno individuati fattori che mantengono il problema, si segnerà tutto ciò che succede prima, dopo e durante la manifestazione di momenti critici in riferimento alla scuola. Questo tipo di modalità è chiamata analisi funzionale. A questo punto si lavorerà parallelamente sul bambino e sui genitori, per fare in modo che non cambi solo il ragazzo, ma che i genitori possano e sappiano incoraggiare e accompagnare il proprio figlio, verso la risoluzione del suo problema.

INTEREVNTO PSICOEDUCATIVO Grazie a tale intervento il bambino, i genitori, gli insegnanti e a volte anche il gruppo di pari, verrano messi al corrente del funzionamento dell’ansia e verrà quindi spiegato loro il motivo di alcune reazioni apparentemente senza senso

TECNICHE DI ESPOSIZIONE Il ritorno a scuola può essere graduale e concordato, nei tempi e nelle modalità, con gli insegnanti e il personale scolastico. Verrà stipulato un vero e proprio contratto, pattuito con il bambino stesso, in cui si stabilirà un programma preciso per il reinserimento a scuola. Tale contratto sarà firmato dal ragazzo/a , dai genitori e dal terapeuta.

Il protocollo di intervento cognitivo- comportamentale, basato sull’analisi funzionale è stato utilizzato in molti lavori, l’efficacia della terapia è stata dimostrata in termini di riduzione dell’ansia, aumento del senso di autoefficacia personale e ripresa della frequenza scolastica.

Bibliografia:

Fabbro N., Rampini R“La fobia scolare” in Psicoterapia cognitiva dell’infanzia e dell’adolescenza F.Angeli (2003)

Gagliardini I. Paure e ansie a scuola. Come affrontarle e superarle. Giunti (2008)

Enuresi Notturna Primaria

enuresiUn bambino che segue normalmente le tappe di sviluppo, inclusa la capacità di contenimento dell’urina, entro i 5 anni dovrebbe raggiungere questa autonomia anche di notte, quando invece il bambino continua ad avere incidenti notturni frequenti durante il sonno allora si può parlare di enuresi notturna primaria.

 

DEFINIZIONE in particolare il DSM IV TR definisce enuresi notturna primaria quella situazione in cui avviene una ripetuta emissione di urina nel letto o nei vestiti, il comportamento è clinicamente significativo, come manifestato da una frequenza di almeno 2 volte a settimana e in assenza di un precedente apprendimento, per almeno 3 mesi consecutivi e questo causa un disagio significativo o compromette l’area sociale o scolastica del bambino (per esempio alcuni bambini a causa di questo problema possono rifiutarsi di andare ad un campo scuola o di invitare amici a dormire, per paura di essere smascherati).

L’età cronologica è di almeno 5 anni e il comportamento non è dovuto all’effetto di una sostanza medica o di una condizione medica generale (diabete, spina bifida, ecc..)

Spesso un bambino enuretico ha un parente che ha sofferto del suo stesso problema (genitori, zii, nonni, ecc.).

 

INCIDENZA L’enuresi notturna riguarda circa il 10% dei bambini di sei anni, 1% degli adulti tra i 15 e i 50 anni è enuretico.

MANIFESTAZIONI ASSOCIATESpesso il bambino che ha questo problema, anche durante il giorno, non si accorge di dover andare in bagno se non all’ultimo momento, non si sofferma molto in bagno per le pratiche igieniche (come lavarsi le mani) ma torna quasi subito all’attività precedente, questo può portare il bambino a piccole emissioni di urina anche diurne, il genitore può accorgersene quando mette a lavare le mutandine che appaiono più sporche del normale.

Molte sono le abitudini che il bambino mette in atto che possono favorire il mantenimento del disturbo nel tempo, per esempio l’uso del pannolone è vero che permette al genitore di non dover cambiare le lenzuola ogni notte, ma non permette al bambino di attivarsi per imparare a contenere l’urina “tanto c’è il pannolone” inoltre può minare la sua autostima, soprattutto se ha un fratello o una sorella che non ne fanno uso.

Molti comportamenti delle persone che stanno vicino al bambino possono favorire il mantenimento del problema anche in modo inconsapevole, per questo è importante rivolgersi ad un esperto e identificare così il comportamento più adeguato da adottare.

 

TRATTAMENTOanche nel caso dell’enuresi la terapia cognitivo comportamentale coinvolge attivamente sia i genitori sia il bambino, è necessario infatti che ognuno si assuma un ruolo specifico per favorire la risoluzione del problema, questo determinerà la riuscita o meno del trattamento e vengono pattuite delle precise condizioni.

CONDIZIONI PER IL TRATTAMENTO

tali condizioni vengono poste quali preliminari al trattamento e fanno parte del contratto terapeutico, verranno esposte ai genitori e al bambino:

– assenza di condizioni organiche

– assenza di situazioni familiari che possono giustificare il mantenimento del problema (situazioni in cui il comportamento enuretico ha la funzione di attirare l’attenzione e la famiglia risponde a tale richiesta o situazioni di aggressività espressa verbalmente o fisicamente in famiglia, ecc.).

– motivazione e collaborazione da parte dei genitori

– motivazione e responsabilizzazione in prima persona da parte del bambino rispetto al problema

– la terapia è prescrittiva, quindi il terapeuta darà delle indicazioni chiare e specifiche che dovranno essere rispettate.

– se le condizioni sono rispettate, esiste una altissima probabilità di successo.

Le tappe del trattamento:

OSSERVAZIONE: l’osservazione è una parte fondamentale dell’intervento, verranno date delle schede ai genitori che per almeno 2 settimane (ma anche per un mese) dovranno prendere nota degli incidenti enuretici notturni dei loro figli al fine di identificare quale è la fascia oraria critica in cui avvengono le perdite di urina (perché spesso diventano abitudini inconsapevoli), tutto ciò senza mai svegliare il bambino.

PSICOEDUCAZIONE: la fase psicoeducativa permette ai genitori e al bambino di conoscere meglio il disturbo e di sapere cosa ha mantenuto nel tempo il problema e cosa occorre modificare, sia durante il giorno (come le abitudini idriche, le pratiche igieniche quando si va in bagno), sia durante la notte (eliminare il pannolone, svegliarsi per andare in bagno, ecc..).

CONTRATTO: Il contratto è una specifica tecnica che prevede la stesura di un contratto in duplice copia (una per il terapeuta e una per la famiglia) in cui ognuno dei protagonisti (genitori- figlio- terapeuta) saranno chiamati a rispettare delle precise regole che includeranno le tecniche di intervento, e infine ognuno firmerà entrambe le copie.

 

Il trattamento prevede esercizi diurni e notturni

 

Token economy la token economy è una tecnica di rinforzo importante, che farà da sfondo agli obiettivi previsti dagli esercizi diurni e notturni, per motivare il bambino al trattamento, grazie ai risultati ottenuti infatti, il bambino potrà accedere a dei premi precedentemente pattuiti con il terapeuta e con i genitori, per avere anche un ritorno concreto del suo impegno oltre all’importanza della lode da parte del genitore e della soddisfazione personale.

 

ESERCIZI DIURNI di ritenzione progressiva Tali esercizi perseguono i seguenti obiettivi:

  • discriminazione dello stimolo della minzione

  • aumento della capacità di contenimento consapevole dell’urina per tempi crescenti

  • portano l’attenzione della persona sul problema

  • cambia l’attribuzione, in termini di importanza , che la persona dà al bisogno di urinare

  • generalizzazione dell’apprendimento anche al controllo notturno

PRATICHE IGIENICHEogniqualvolta che il bambino usa il bagno, farà attenzione a svuotare completamente la vescica

svolgerà con attenzione le pratiche igieniche (lavarsi le mani, fare il bidet)

resterà comunque in bagno per un periodo tempo prestabilito (solitamente alcuni minuti)

gli obiettivi di tali esercizi sono:

  • veicolare l’attenzione del bambino sulla necessità di

  • svolgere correttamente il processo di minzione

  • veicolare l’attenzione del bambino sulla necessità di compiere adeguatamente le pratiche igieniche necessarie

  • portare la sua attenzione sulla cura del proprio

CONTROLLO IDRICO sarà importante educare il bambino ad assumere una quantità di liquidi adeguata prima di coricarsi.

 

 

ESERCIZI NOTTURNI

SVELGIE PROGRAMMATE una volta identificate le fasce orarie critiche di incidenti notturni verrà messa una sveglia poco prima della fascia oraria interessata per permettere al bambino di andare in bagno

COSTO DELLA RISPOSTA delegare, quando possibile, al bambino la responsabilità delle lenzuola quando si bagnano (se il bambino è piccolo si può chiedere di aiutare il genitore a rifare il letto).

 

 

Riferimenti bibliografici:

Francesco Rovetto, enuresi ed encopresi guida pratica al trattamento medico psicologico 1987 Masson editore

Mower O. H., Mower W. M. (1938) Enuresis: a method for its study and treatment, The American Journal of Orthopsychiatry, pp. 439-459.

Disturbo d’ Ansia da Separazione

ansia da separazione

Durante l’infanzia, in diverse fasi del processo evolutivo l’ansia da separazione può essere di natura transitoria, in quanto ingrediente naturale del processo di crescita.
Nei bambini, la riluttanza a lasciare un genitore o un’altra persona di riferimento è il segnale che l’attaccamento tra bambino e “caregiver” è avvenuto. Normalmente, tali difficoltà vengono superate in modo spontaneo con lo sviluppo dei processi cognitivi e la maturazione di una maggiore sicurezza emozionale. In questi termini l’ansia da separazione compare a partire dalla seconda metà del primo anno di vita, raggiunge la massima intensità verso i 14-20 mesi e gradualmente diventa meno frequente e meno intensa durante l’infanzia e nel periodo prescolare. Diversamente è possibile essere in presenza di un disturbo d’ansia da separazione, se le manifestazioni di ansia risultano clinicamente significative, eccessive e di lunga durata.

DEFINIZIONE
Secondo il DSM-IV-TR il bambino con Disturbo d’Ansia da Separazione mostra un’ansia eccessiva e inadeguata rispetto al livello di sviluppo raggiunto, nelle situazioni che implicano la separazione da casa o da coloro a cui il soggetto è attaccato, con esordio prima dei 18 anni.
Perché il problema possa essere definito disturbo devono essere presenti almeno 3 dei seguenti elementi:
1) Il bambino ha una sensazione di forte Malessere tutte le volte che si verifica la separazione da casa o dalle principali figure di attaccamento o persino quando pensa alla separazione.
2) Il bambino mostra una preoccupazione immotivata di perdere le principali figure di attaccamento, o che accada loro qualche cosa di pericoloso.
3) Il bambino mostra una preoccupazione infondata che succeda qualcosa che possa provocare la separazione dalle figure di attaccamento, come ad esempio perdersi o essere rapito.
4) Il bambino si rifiuta di allontanarsi da casa per la paura della separazione, ad esempio non vuole andare a scuola.

5) Il bambino manifesta forte paura o  di stare solo a casa o senza le principali figure di attaccamento, oppure più in generale senza adulti significativi.
6) Il bambino non vuole andare a dormire senza avere vicino uno dei personaggi principali di attaccamento, per cui non riesce a dormire fuori casa.
7) Il bambino fa spesso incubi sul tema della separazione.
8) Il bambino manifesta frequenti sintomi fisici, ad esempio mal di testa, dolori di stomaco, nausea o vomito ogni volta che si verifica o si prospetta il pensiero della separazione dalle principali figure di attaccamento.
I sintomi descritti durano almeno 4 settimane, e causano una sofferenza al bambino oppure una compromissione dell’area sociale, scolastica o di altre importanti aree del funzionamento psicologico.
L’Esordio viene specificato come Precoce se avviene prima dei 6 anni di età.

Manifestazioni e disturbi associati

I bambini con questo disturbo in genere provengono da famiglie molto unite; quando vengono separati dalle figure di attaccamento, possono mostrare ritiro, apatia, tristezza o difficoltà a concentrarsi nel gioco e spesso hanno bisogno di sapere dove si trovano e di mantenere contatti telefonici. A seconda dell’età possono aver paura dei mostri, del buio, degli animali, dei viaggi, degli incidenti, di situazioni percepite come pericolose per l’integrità loro e della loro famiglia. Si possono lamentare che nessuno li ami e desiderare di morire, possono mostrare rabbia o aggressività contro chi sta forzando la separazione.

I bambini sono spesso intrusivi, bisognosi di attenzione costante e spesso divengono una fonte di frustrazione per i genitori e portano conflittualità. A volte sono coscienziosi, compiacenti e desiderosi di piacere, possono lamentare problemi somatici.
L’ansia e l’anticipazione della separazione possono divenire evidenti nella media fanciullezza. Sebbene gli adolescenti con questo disturbo possano negare l’ansia riguardo alla separazione, essa può essere riflessa dalla loro limitata attività indipendente e dalla riluttanza a lasciare la casa. Il disturbo può svilupparsi dopo qualche evento di vita stressante. Le minacce di separazione possono portare il bambino a crisi di ansia estrema ed anche ad attacchi di panico.

FATTORI POTENZIALMENTE SCATENANTI
Tale disturbo può essere innescato da eventi stressanti di diverso tipo:
traslochi,
cambiamento di scuola,
morte di un parente o di un animale domestico,
malattie,
separazione dei propri genitori o di persone conosciute.
L’esordio può avvenire anche in età prescolare e comunque prima dei 18 anni.
Tale disturbo è più frequente tra i parenti biologici di primo grado ed è più frequente nei figli di madri con Disturbo di Panico.
Il tasso di remissione del disturbo d’ansia da separazione è alto.
Tuttavia, si alternano periodi in cui il disagio diventa più grave e periodi in cui diminuisce.
La remissione totale dell’ansia da separazione dipende dallo sviluppo di un adeguato senso di sicurezza e fiducia nelle persone che non fanno parte del nucleo familiare, nell’ambiente, e nel ritorno dei propri genitori dopo l’allontanamento.
Altri fattori che contribuiscono allo sviluppo e mantenimento nel tempo dell’ansia da separazione è come reagiscono i genitori di fronte al problema e di come cerchino di affrontarlo e risolverlo, proprio per questo motivo i genitori vengono coinvolti attivamente nella fase di trattamento.

TRATTAMENTO cognitivo comportamentale

Il trattamento del disturbo da ansia da separazione prevede quasi sempre il coinvolgimento dei genitori, sotto i 10 anni, a volte è sufficiente lavorare attraverso i genitori senza coinvolgere direttamente il bambino.
I passi da compiere per definire e raggiungere gli obiettivi sono i seguenti:
OSSERVAZIONE STRUTTURATAI genitori saranno chiamati a osservare, per un periodo di almeno due settimane, le situazioni in cui il bambino manifesta il disturbo secondo il metodo cognitivo comportamentale dell’analisi funzionale, attraverso schede di monitoraggio apposite per identificare fattori scatenanti e perpetuanti del disturbo.
INTERVENTO PSICOEDUCATIVOQuesto tipo di intervento ha come obiettivo quello di rendere noto ai genitori e al bambino, che cosa è un disturbo d’ansia da separazione che funzioni ha e quali sono i fattori che lo mantengono nel tempo emerse grazie all’analisi funzionale .
TECNICHE DI ESPOSIZIONE una volta identificate le situazioni temute dal bambino verranno strutturate delle esposizioni graduali concordate con il genitore e con il bambino per affrontare le situazioni temute in modo accettabile e fronteggiabile, senza sperimentare un’intensità emotiva eccessiva, ma accettabile e gestibile:
es. la sera prima di andare a dormire il genitore si avvicina al figlio e gli dà la buona notte dicendogli “sono nell’altra stanza, tra cinque minuti vengo a guardarti” invece di stare nel letto con il figlio come accadeva prima, ma senza farlo sentire totalmente abbandonato “tanto non c’è niente da temere!”
l’obiettivo finale sarà senz’altro arrivare a farlo addormentare da solo, ma questo avverrà gradualmente.
TECNICHE DI RINFORZOogni volta che il bambino raggiungerà un obiettivo o riuscirà ad affrontare anche solo una piccola parte del suo percorso di autonomia, verrà lodato e rinforzato da chi gli sta accanto.
TOKEN ECONOMYtra le tecniche di rinforzo maggiormente efficaci in questi casi c’è la token ecomony, che consiste nella definizione, condivisa con il bambino, di obiettivi da raggiungere a breve, medio e lungo termine e sulla base degli obiettivi perseguiti verranno definiti anche i rispettivi premi, che permetteranno il bambino di motivarsi a superare la sua ansia e gli permetteranno al contempo di sperimentare di essere capace di fronteggiare la paura.
TRAINING EMOTIVO rivolto ai genitoriquesto tipo di training permette ai genitori di comprendere emotivamente (empatizzare)il proprio figlio e di sperimentare le proprie emozioni in relazione alle difficoltà del bambino, imparando a gestire se stessi restando guida per il figlio. Acquisire questo tipo di consapevolezza emotiva può permettere al genitore di favorire lo sviluppo di un attaccamento sicuro al bambino che riuscirà così a separarsi dai genitori senza il timore che accada qualcosa di terribile. “il mio bambino può affrontare la vita e io genitore gli do fiducia, non tempo che non ce la faccia, perché anche se ciò accadesse lo affronterà e io gli starò accanto!”
STABILIRE UN PERCORSO DI AUTONOMIA vengono stabiliti degli obiettivi di autonomia del bambino, da quelle per lui più semplici a quelle per cui ci vorrà sempre più impegno.
Favorire situazioni in cui il bambino sperimenta l’autonomia è fondamentale per accrescere il senso di autoefficacia e di sicurezza in se stesso, è importante quindi che il genitore impari a non sostituirsi al figlio in tutte quelle attività che per età e abilità il figlio può compiere da solo: per es. un bambino di 7 anni può vestirsi, lavarsi, preparare la cartella, aiutare ad apparecchiare la tavola, se un genitore si sostituisce a lui implicitamente comunica che non è in grado di farlo.

Bibliografia:
Celi F. (2002), Psicopatologia dello sviluppo: storie di bambini. McGraw-Hill, Milano
Di Pietro M., Dacomo M., (2007) Giochi e attività sulle emozioni: nuovi materiali per l’educazione razionale emotiva. Erickson. Trento

Richiesta Informazioni

Nome (richiesto)

E-mail (richiesto)

Oggetto

Messaggio

Acconsento al trattamento dei miei dati personali sulla base della Privacy Policy

WhatsApp chat