Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

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CORSO BASE DI TRAINING AUTOGENO AREZZO E FIRENZE (NOVEMBRE 2014)

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PSICOTERAPIA E PSICOFARMACI … CHI L’HA DETTO CHE NON SI PUO’

 

 

farmaci e psicoterapia

Qual è la terapia giusta per i disturbi emotivi? I farmaci sono risolutivi ? Ma poi questi farmaci fanno male? E la psicoterapia cos’è? Se faccio psicoterapia posso non assumere farmaci?

Queste sono le domande più frequenti che le persone si pongono di fronte alla decisione di affrontare il proprio disagio psichico e conseguentemente alla decisione di curarsi.
Per capire quali sono i percorsi di cura dobbiamo partire da cosa intendiamo per disturbi psichici.
L’approccio attuale considera le malattie psichiatriche secondo il concetto di multidimensionalità e cioè le colloca all’interno di un “modello biopsicosociale” che vede come base, causa e occasione della sofferenza psichica la profonda interazione tra fattori genetici, organici, psicologici, sociali e culturali.
Da qui l’utilità di associare farmacoterapia e psicoterapia partendo dall’evidenza clinica che in alcuni casi il trattamento combinato risulta più efficace di ciascuna delle due modalità terapeutiche usate singolarmente. Tale conclusione è avvalorata dal fatto che disturbi mentali sono delle patologie con diversa gravità, sintomatologia, decorso e prognosi e come tali devono essere trattati.

Ma perché assumere psicofarmaci?
L’azione degli psicofarmaci è quella di ristabilire un equilibrio laddove un processo patologico ha prodotto un danno ripristinando le condizioni preesistenti alla malattia.
Ancora oggi però si riscontrano sfiducia e timore nei confronti di una prescrizione psicofarmacologica.
I pregiudizi più diffusi rispetto all’ assunzione di psicofarmaci riguardano:
• la paura che gli psicofarmaci possano causare gravi e pericolosi effetti collaterali;
• il timore di uno stato di dipendenza;
• la convinzione che gli psicofarmaci modifichino, artificialmente e in modo permanente, comportamenti, pensieri ed emozioni;
• il considerare i disturbi mentali come condizioni esistenziali estreme, momenti transitori di sofferenza che vanno affrontati con le proprie risorse psichiche, utilizzando volontà, coraggio e “forza d’animo”.
Per contrastare questi pregiudizi è importante sottolineare che:
• gli psicofarmaci devono essere assunti sotto controllo medico, non con un metodo “fai-da-te” che tiene in conto i pareri degli amici, seppur fidati e con le migliori intenzioni;
• è lo psichiatra che individua il farmaco più adatto in termini di effetti terapeutici e informa il paziente sui possibili effetti collaterali che spesso sono transitori o comunque tollerabili in virtù del beneficio ottenuto dal farmaco stesso;
• la dipendenza da psicofarmaci è accertata soltanto per alcune categorie (le benzodiazepine) e solo nel caso in cui l’assunzione avvenga in modo prolungato e senza il diretto controllo medico;
• l’eventuale interruzione della terapia non causerà sintomi da sospensione se attuata in modo graduale e programmato.
Lo specialista psichiatra non si limita però solo ad una prescrizione farmacologica ma considera i numerosi fattori psicologici che possono favorire o impedire il buon esito della terapia stessa, quali:
• la personalità del paziente;
• la sue aspettative;
• le sue paure;
Queste infatti possono influire in modo determinante anche in una semplice cura farmacologica.

La durata del trattamento ed il tipo di risposta agli psicofarmaci (dal lieve miglioramento alla completa remissione dei sintomi), dipendono da una serie di fattori come: l’età, il sesso, il peso corporeo, la dieta, l’essere o meno fumatore, dalla presenza/assenza di patologie e di altri trattamenti farmacologici.

Esistono quattro grandi gruppi di psicofarmaci:

Ansiolitici;
Antidepressivi;
Antipsicotici;
Stabilizzanti dell’umore.

Gli ansiolitici
Appartengono a questo gruppo i farmaci (tranquillanti ed ipnotici) efficaci nel trattamento dei disturbi d’ansia. Questi farmaci, di solito, hanno effetto nel breve termine ma assai meno nel lungo termine; talvolta, come conseguenza del loro uso si può avere un peggioramento della sintomatologia (il cosiddetto effetto rebound) e lo svilupparsi di una certa dipendenza. Anche in considerazione di questi effetti, gli ansiolitici dovrebbero essere prescritti soltanto nei casi di ansia o insonnia grave e comunque per periodi brevi.

Gli antidepressivi
Appartengono a questo gruppo, i farmaci efficaci nel migliorare l’umore negativo e gli altri sintomi tipici della depressione e perciò detti antidepressivi. Esistono tre sottogruppi di antidepressivi: gli inibitori delle mono-amminossidasi (IMAO), i triciclici e gli inibitori selettivi del recupero della serotonina (ISRS).
Questi farmaci sono generalmente efficaci, ma possono indurre effetti collaterali, che però tendono a scomparire nel corso del trattamento. Generalmente, il rischio di effetti collaterali si può ridurre, cominciando il trattamento con dosi basse e incrementandole gradualmente.
A differenza degli ansiolitici, gli antidepressivi non creano dipendenza. Gli antidepressivi devono essere assunti con regolarità e, in alcuni casi, è necessario aspettare alcune settimane, prima di ottenere benefici.
Inoltre, alcuni farmaci devono essere sospesi gradualmente, per dare modo all’organismo di adattarsi alla nuova condizione.

Gli antipsicotici
I farmaci antipsicotici, chiamati anche neurolettici o tranquillanti maggiori, sono usati per il trattamento della schizofrenia, delle fasi maniacali del disturbo bipolare, e di quei disturbi in cui sono presenti sintomi psicotici.
Gli antipsicotici sono capaci di migliorare sensibilmente la sintomatologia (allucinazioni e deliri) tipica della schizofrenia, ma provocano anche effetti collaterali, che di regola sono reversibili, cioè terminano con la sospensione del trattamento. Questi farmaci non creano dipendenza ma è di fondamentale importanza il controllo periodico.

Gli stabilizzanti dell’umore
Appartengono a questo gruppo i farmaci efficaci nel trattamento del disturbo bipolare.
Uno dei farmaci più potenti, appartenente a questa categoria, è il litio. Pur essendo un farmaco efficace, il litio presenta un inconveniente non trascurabile: può essere tossico se raggiunge determinati livelli nell’organismo.
Per questo motivo è necessario tenere sotto controllo periodicamente (di solito ogni 3-6 mesi) la sua concentrazione nel sangue.

Ma perché associare anche la psicoterapia ?
La farmacoterapia agisce sulla risoluzione dei sintomi psichici e neurovegetativi ma spesso le persone curate esclusivamente con gli psicofarmaci presentano solo un transitorio miglioramento dovendo poi intraprendere un nuovo ciclo di trattamento. Questo accade perché soprattutto nell’ ambito delle patologie ansioso-depressive gli psicofarmaci normalizzano il funzionamento dei neurotrasmettitori implicati in tali patologie ma non possono intervenire sulle cause. E’ quindi importante e necessario anche un percorso di psicoterapia che permetta di modificare il modo di vivere le relazioni intra e inter-personali e di sopportare le situazioni stressanti. In particolare la psicoterapia cognitivo comportamentale si basa sul presupposto che vi è una stretta relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti e che i problemi emotivi sono influenzati da ciò che pensiamo e facciamo nel presente. Le nostre reazioni emotive e comportamentali sono infatti determinate dal modo in cui interpretiamo le varie situazioni, quindi dal significato che diamo agli eventi. Ma a volte le convinzioni che abbiamo su noi stessi, sugli altri o sul mondo possono essere disfunzionali, cioè possono distorcere la realtà delle cose, attivarsi in modo rigido indipendentemente dai contesti, generare pensieri automatici negativi che producono sofferenza.
In conclusione si può affermare che i due trattamenti agiscono in sinergia nei disturbi psichici in quanto i farmaci, oltre ad agire sui sintomi, aumentano la riuscita del percorso psicoterapico migliorando funzioni come capacità verbali, cognitive, la memoria e la concentrazione.

Dott. Rossano Bisciglia

La fobia sociale ai tempi dei Social Network

Curati di quanto dicono gli altri e sarai sempre loro prigioniero” .

 (Lao –tzu, Tao tê Ching).

 

“Non bisogna mai aver paura dell’altro perché tu rispetto all’altro sei altro”.

(Andrea Camilleri)

Il disturbo d’ansia sociale, come gli altri disturbi d’ansia, è una condizione che molte persone vivono e che, al giorno d’oggi, sembra essere in aumento.

Le ricerche svolte per valutarne l’impatto hanno stimato che ne soffra dal 6 al 13 per cento della popolazione, in Italia, quindi ne soffrono indicativamente dai 4 ai 7 milioni di persone.

Per comprendere la fobia sociale è necessario innanzitutto soffermarci sulla sua componente fondamentale ovvero l’ansia.

A tutti noi capita di provare ansia in diverse situazioni, comprese quelle sociali.  L’ansia è un aspetto fondamentale della nostra esistenza, è una parte di noi. Persino la persona più abituata a parlare in pubblico prova un po’ di attivazione ansiosa ogni volta che deve tenere un discorso, oppure tutti noi possiamo non sentirci completamente a nostro agio quando dobbiamo partecipare ad una festa dove si conoscono pochissimi invitati o ancora essere agitati all’idea di parlare al telefono davanti ad altre persone.

Tuttavia, questo non vuol dire che soffriamo tutti di fobia sociale.

La fobia sociale o meglio il disturbo d’ansia sociale, come ci indica il nome stesso, appartiene alla famiglia dei disturbi d’ansia e come tale si distingue dalla semplice timidezza.

Il nucleo centrale che caratterizza il disturbo d’ansia sociale, sebbene sia caratterizzato da diversi sintomi, è la paura del giudizio altrui, riguardante non solo le proprie azioni o prestazioni specifiche (ad esempio mangiare mentre si è osservati), ma anche semplicemente alla propria presenza in mezzo agli altri (ad esempio entrare in una stanza dove ci sono già altre persone).

Proprio l’esposizione alle situazioni temute provoca una serie di sensazioni interne come batticuore, vampate di calore, rossore, fastidi gastro-intestinali, sudorazione, tremori e tensioni, affanno, fame d’aria, e alle volte tali sintomi diventano così intensi da costringere chi soffre di tale disturbo a evitare il contatto con gli altri.

Tuttavia, tutti noi siamo naturalmente degli esseri sociali, abbiamo bisogno degli altri, di appartenere ad un gruppo, di costruire dei legami e di renderli stabili. Proprio tale appartenenza è fondamentale per la costruzione della nostra stessa identità.

Spesso nella condizione dell’ansia sociale, sia vissuta che temuta, il contesto sociale è, quindi, il luogo desiderato, ma anche l’ambiente in cui non è più possibile appartenere; lo sforzo che spesso un soggetto compie per stare nel gruppo viene vanificato dalle esperienze di brutta figura.

Il bisogno degli altri unitamente al timore degli altri fa si che sempre di più chi soffre di questo disturbo si rifugi nei social – network, fuggendo la realtà esterna per costruirsi un’identità virtuale in cui le proprie ansie non esistono e si può essere chi si vuole.

Questo fatto possiede due lati, uno positivo e l’altro negativo. Il primo, è che i social network in qualche modo consentono la socializzazione  e la condivisione di parti di sè riguardanti anche il problema, spesso tenute nascoste e, quindi,  anche aprirsi e svelare agli altri, soprattutto a perfetti estranei, la propria situazione personale.

Il secondo lato della medaglia però, come dicevamo, è negativo. Questo perché purtroppo se da un lato il soggetto tenta di avere un approccio verso la socializzazione, dall’altro tenderà sempre più ad isolarsi dalle persone fisiche, reali, che lo circondano.

Internet diventerà sempre più presente all’interno della sua vita e soprattutto i social network, un passatempo ed uno svago perfetto per cercare di non risolvere alla radice i veri problemi.

In questo modo quindi, si allontanerà sempre di più dal mondo delle relazioni reali.

Il problema principale quindi, rimane sempre il fatto di non socializzare veramente, al contrario di come invece può pensare il soggetto affetto da fobia sociale.

Naturalmente, anche per chi soffre di problematiche inerenti l’ansia sociale, l’uso dei social network non va demonizzato, anche perchè spesso dietro tale utilizzo c’è un’enorme mole di sofferenza e la vergogna e la paura di chiedere una consulenza professionale.

La terapia cognitivo – comportamentale si è dimostrata negli anni il trattamento di elezione per i disturbi d’ansia. Essa si muove sia nell’ottica di affrontare apertamente le situazioni che generano ansia, invece che rifuggirle dietro uno schermo, sia in un’ottima di accettazione di se stessi .

Il primo grande passo verso il cambiamento è l’accettazione di se stessi, ovvero abbandonare il desiderio di essere qualcosa di diverso da ciò che si è, accettando di non esserlo, solo a quel punto si sperimenta il cambiamento.

Se tentassimo di effettuare un grande cambiamento senza accettare, e affrontare, prima di qualsiasi altra cosa, il problema che lo ha generato, alla fine otterremmo solo un appagamento parziale a cui seguirebbe un senso di frustrazione e di fallimento. Quindi, prima di operare qualsiasi tipo di cambiamento comportamentale è necessario accettare il problema.

Si tratta, dunque, di abbandonare i tentativi di manipolazione operati verso se stessi, spesso grazie ad internet  e accettare noi stessi per quello che siamo, superando a volte la vergogna di chiedere aiuto ad un terapeuta.

 

Dott.ssa Giovanna Mengoli

PARENT TRAINING

INCONTRI PER GENITORI DI BAMBINI IPERATTIVI
FORMAZIONE, CONSULENZA E SUPPORTO

Prendersi cura di bambini iperattivi può portare i genitori a situazioni di grave stress che rischiano di ripercuotersi negativamente sulle relazioni all’interno e al di fuori della famiglia.
I genitori, di fronte ai comportamenti problematici del figlio, si sentono spesso confusi e hanno l’impressione di non avere a disposizione strategie e strumenti utili per stabilire una relazione positiva con il bambino. Talvolta tutto ciò può generare sensazioni di frustrazione, rabbia, colpa e impotenza.

Il Parent Training (corso per genitori) si propone di analizzare e modificare quelle modalità di relazione che risultano non-funzionali, fornendo strumenti utili per sostenere i genitori nel delicato compito di accompagnare la crescita dei figli e di prevenire le situazioni critiche.
Tale percorso da la possibilità ai genitori di vivere ed affrontare con consapevolezza la complessa realtà umana, sociale, affettiva e psicologica del loro bambino.

Il percorso prevede una decina di incontri, che diverranno un vero e proprio processo di problem solving (soluzione di problemi) da un lato, rispetto alle cose che si possono modificare e, dall’altro, di accettazione consapevole di quello che non è possibile modificare. L’obiettivo sarà migliorare la relazione con il proprio figlio e aiutarlo a gestire al meglio i suoi comportamenti, le sue emozioni e i suoi pensieri, nei contesti in cui trova difficoltà.
Dr.ssa Chiara Mercurio

Paura dell’acqua

Mio figlio ha paura dell’acqua!

 

acqua

 

Durante il periodo estivo, più che in ogni altro momento dell’anno, i nostri bambini possono diventare amici dell’acqua.. per qualcuno è molto naturale per qualcun altro lo è molto meno.. Quando un bambino fatica a prendere confidenza con l’acqua può manifestare paura e resistenza ad entrare in piscina o al mare.. a volte addirittura dimostrano il timore di mettere un piedino nell’acqua e per questo evitano con tutta la forza di togliersi le scarpe..

 

Perché hanno paura dell’acqua ?

 

La Paura è una delle emozioni di base della specie umana che ha permesso all’essere umano di sopravvivere fino ad oggi, quindi non è sbagliata, anzi è molto importante..

L’origine della paura dell’acqua può essere dovuta ad un’esperienza negativa che il bambino ha vissuto direttamente o che ha visto vivere a qualcun altro.. o ancora “sentito” vivere da qualcun altro nelle occasioni di vicinanza all’acqua.. un esempio esplicativo può essere quella di una persona molto vicina (un genitore, uno zio, un amico o un nonno.. ecc..) che ogni volta che si va al mare manifesta in modo evidente la paura perché ritiene la situazione molto pericolosa (anche attraverso frasi del tipo “oddio! Attento lì non si tocca.. poi se affoghi soffochi!!!” “io ogni volta che mi avvicino all’acqua mi sento male..” ecc..).

In altre situazioni può essere dovuta alla naturale paura dell’ignoto.. infatti come premesso non è così frequente per un bambino avere a che fare con l’acqua come accade nel periodo estivo e il semplice contatto con l’acqua può far sentire il bambino in pericolo perché la situazione è nuova.

Cosa fare?

  1. Riconoscere e gestire le nostre emozioni: quando i nostri figli fanno fatica a fare qualcosa.. possiamo provare diverse emozioni: paura, rabbia, frustrazione, senso di inadeguatezza, ecc.. il primo passo per aiutare i nostri figli è quello di distinguere le nostre emozioni dalle loro e gestirle… solo successivamente riusciremo ad aiutarli come vorremmo..
  2. Accogliere la paura del bambino: far sentire ai nostri bambini che non è sbagliato aver paura e che lo capiamo lo farà calmare..
  3. Infondiamogli sicurezza con la nostra presenza in assenza di giudizio:  il nostro compito non è giudicare se nostro figlio sa nuotare, è una schiappa o un fifone, il nostro compito è farlo sentire sicuro in una situazione che teme di non riuscire ad affrontare …abbracciamolo, se vuole, e diciamogli che sappiamo che ha paura e che lo aiuteremo noi..
  4. Osserviamo e riconosciamo i piccoli progressi con grande enfasi: abbassiamo i nostri standard al loro livello.. se noi pensiamo che l’obiettivo sia insegnargli a nuotare .. per loro l’obiettivo è davvero difficile e adeguarsi al nostro standard creerà solo ulteriore ansia al bambino, perché dovrà combattere con la sua paura e con la paura di non essere all’altezza delle aspettative del genitore.. allora spostiamoci nella loro prospettiva e se non mettevano un piedino nell’acqua e mettono un dito facciamo sentire loro il nostro orgoglio e la nostra gioia, con elogi verbali eloquenti “bravo!!!! Sono fiero di te.. sei il mio campione!!! Batti cinque!!”
  5. Aspettiamo che ogni passo sia consolidato e che il bambino si senta sicuro: per riconoscere se il nostro bambino si sente sicuro.. osserviamolo, le sue espressioni del viso, i suoi movimenti, il suo sorriso, ce lo faranno capire..
  6. Accompagnamolo verso il passo successivo credendo noi per primi che ce la farà :mostriamo ai nostri figli come si fa e magari diciamo loro che per noi non è stato facile per niente e che sappiamo che è faticoso.. ma crediamo in loro.. e siamo sicuri che con i loro tempi (che sono diversi dai nostri) ce la faranno!

Infine ricordiamoci sempre di sorridere teneramente, di non ridicolizzarli prendendoli in giro, di ricercare il contatto fisico e di fare tutto questo in modo giocoso.. è una grande occasione di crescita per la relazione genitore- figlio.. durante la quale i figli possono davvero insegnarci tanto!

 

Dott.ssa Cristina Jacchia

Nuove Dipendenze e Pensiero Desiderante

addiction

In questi ultimi anni si sta delineando un’importante trasformazione nel campo delle dipendenze patologiche. Infatti, accanto all’abuso, al consumo, alla dipendenza di sostanze tradizionali (alcool, hashish e derivati, eroina, cocaina), si evidenzia un crescente utilizzo di quelle che vengono definite “le nuove sostanze” , ovvero forme di dipendenza che non prevedono l’utilizzo di sostanze psicotrope.

Esempi di nuove dipendenze sono la dipendenza da internet (IAD, Internet Addiction Disorder), da acquisti compulsivi (Compulsive Buyers), da esercizio fisico (Exercise Addiction), da lavoro (work addiction), da gioco d’azzardo (Pathological Gambling),etc.

Queste dipendenze provocano le stesse conseguenze delle altre tossicodipendenze (l’escalation, la tolleranza, l’astinenza, l’evoluzione progressiva del quadro, etc.), ma si costruiscono e si autoalimentano in assenza di qualsiasi sostanza.

Spesso hanno a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e spesso socialmente incentivati (ad esempio l’esercizio fisico, l’uso di tecnologie informatiche, il lavoro, etc.).

Negli ultimi anni si è assistito ad un’enorme diffusione di tali dipendenze, tanto che la letteratura scientifica non ha potuto fare a meno di rivolgervi il proprio interesse.

È emerso, in particolare, che uno degli elementi che accumunano i nuovi addicted è il fenomeno del craving ovvero il forte e irresistibile bisogno di assumere una sostanza o di avere un oggetto.

Per molti autori, proprio il craving è considerato il cuore delle dipendenze patologiche e il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento. Per tali ragioni è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche.

Una domanda che resta aperta è: qual è il funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene questa sensazione di desiderio e impulso incontrollabile (craving)? Cosa è che ci spinge irrefrenabilmente verso qualcosa?

Recentemente alcuni studi hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio (un vestito, un paio di scarpe, etc) e hanno individuato uno stile di pensiero con specifiche caratteristiche: Il pensiero desiderante questo è il suo nome tecnico, ovvero come noi pensiamo ai nostril oggetti del desiderio.

Il problema, tuttavia, non sono i desideri. Il problema è come reagiamo mentalmente quando i desideri balzano alla nostra coscienza. Alcuni di noi discriminano rapidamente i desideri su cui vogliono soffermarsi da quelli che in realtà non vogliono perseguire. Altri si soffermano a elaborare mentalmente questi desideri, il ché significa:

(1) immaginare le sensazioni che si provano ad esaudirli, (2) pianificare mentalmente (come fosse un film) le azioni da compiere per raggiungerli, (3) identificare le ragioni valide che ci possono “concedere” o “permettere” di sceglierli.

Questo processo di pensiero talvolta è tanto automatico che le persone non si rendono conto di esservi immerse. Sono fuse dentro questo canale di elaborazione. Questo processo cognitivo ha un impatto forte sulla sensazione di desiderio o di ‘fame’ per un oggetto o per un’attività e  può influire, quindi, profondamente sulle nostre capacità di autocontrollo.

Gli studi sul pensiero desiderante ci mostrano sempre di più come il problema non siano i nostri desideri, ma come rispondiamo ad essi.

Tale scoperta dal punto di vista psicoterapico si traduce in un focus d’intervento che risulta essere maggiormente centrato sull’identificazione e riduzione di tale tipologia di pensiero.

Dott.ssa Giovanna Mengoli

Mindfulness: la consapevolezza al momento presente

mindfulness

Se sei depresso stai vivendo nel passato, se sei ansioso nel futuro, se sei in pace nel presente”

Lao Tzu

 

Il termine mindfulness è la traduzione inglese della parola “sati” che, nella lingua Pali,  significa “consapevolezza”.

È pertanto la (ri)scoperta della consapevolezza che si ottiene volgendo l’attenzione intenzionalmente e in modo non giudicante al momento presente.

Spesso la nostra testa corre veloce lungo binari che portano troppo indietro o troppo avanti. La mente ci funziona come una macchina del tempo, pronta a fare l’elenco di tutto ciò che è andato storto nel passato e tutto quello che andrà sicuramente male nel futuro. La macchina è sempre accesa. Mentre scriviamo al pc e mentre guidiamo la macchina, mentre prendiamo il caffè e facciamo la doccia.

cosa succederà domani?”, “perchè ieri mi ha detto questo?” “temo che non andrà bene” “come al solito ho sbagliato, dovevo far diversamente” sono queste domande la locomotiva del nostro treno.

Catene di pensieri rivolti al passato o al futuro pieni di punti interrogativi o rimproveri che spesso e volentieri sono  fonte di sofferenza emotiva.

Il risultato di questi intensi viaggi è scordarsi che la vita “è” nel momento in cui effettivamente si sta vivendo. Con quei suoni, quegli odori e soprattutto con quelle emozioni che, belle o brutte che siano, fanno parte della nostra esperienza al “momento presente”.

La vita ha luogo solo nel qui ed ora: non c’è nient’altro che può essere esperito direttamente. Tutto il resto, tutto ciò che riguarda passato o futuro immaginato, è una ricostruzione, un ricordo, un’immagine, un pensiero o un progetto.  Ed è questo lo scopo della mindfulness. Anzi, mi correggo, nella mindfulness non c’è uno scopo. È proprio imparare a non aver scopi ed aspettative (spesso negative  o irrealistiche), ma semplicemente osservare, curiosamente, quello che accade in noi e a  noi, in questo momento, in modo non giudicante, per accettarlo.

Appare chiaro come e perchè questa pratica, figlia di filosofie religiose e buddiste, abbia oltrepassato i confini per arrivare in occidente e all’interno del mondo non solo terapeutico, ma anche scientifico. La mindfulness oggi risulta un trattamento efficace per numerosi disturbi d’ansia, per prevenire le ricadute nella depressione, per la gestione dello stress e una crescente mole di studi sta testando l’efficacia di questa pratica in una sempre più vasta area di interesse clinico con ottimi risultati.

È altresi vero  che possiamo vedere la mindfulness come “un atteggiamento verso la vita” e non solo un trattamento per chi soffre, è pertanto rivolta a tutti coloro che vogliono imparare, o riscoprire, la capacità di “osservare ciò che accade mentre accade” e viverlo, nel momento presente, smettendo di combatterlo, allontanarlo, evitarlo, ma accettandolo come parte dell’esperienza della vita.

Scendendo una volta tanto dalla macchina del tempo della nostra mente.

 

Dott.ssa Elena Mannelli

Training Assertività

training assertivo (1)

L’Assertività è un comportamento che promuove l’eguaglianza nelle relazioni umane e che permette alla persona di agire per salvaguardare i propri interessi e diritti, rispettando quelli degli altri.

Chi è assertivo utilizza un linguaggio verbale e non verbale, che è una chiara espressione delle sue necessità, volontà, desideri o intenzioni, che tiene però in considerazione anche i bisogni delle persona con cui comunica.

Perché essere assertivi ?

Siamo inseriti in una rete di relazioni sociali in cui è necessario mediare fra le proprie e le altrui esigenze. Ad esempio:
Gestire i rapporti con i colleghi di lavoro;
Rapportarsi con persone autorevoli,
Affrontare le critiche che si ricevono;
Saper fare e accettare complimenti e richieste;
Esprimere sentimenti alla persone a cui siamo affettivamente legati.

Le persone assertive sviluppano meno rabbia e frustrazione e tendono ad avere una buona autostima. Una comunicazione assertiva consente di avere un maggior vantaggio, o un minor svantaggio, sia nel breve che nel lungo termine.

Training assertivi
Lo studio Coradeschi organizza formazione assertiva in diversi ambiti e con diversi obiettivi

Lavorativo: per migliorare e rendere eccellenti i rapporti professionali;
Scolastico: rivolto a tutti gli insegnati e agli alunni allo scopo di prevenire bullismo, difficoltà comportamentali ed emotive caratteristiche del periodo adolescenziale;
Clinico: per persone con difficoltà nelle relazioni interpersonali, che provano ansia nelle situazioni sociali e che evitano di esprimere i propri bisogni e desideri o con la tendenza a prevaricare gli altri con atteggiamenti aggressivi.

Gioco … o Azzardo ?

azzardo vetrina

Sembra coinvolgere milioni di persone e dai dati sembra la dipendenza più studiata nel gruppo delle dipendenze che non sono associate ad uso di sostanza. Parliamo del gioco d’azzardo patologico. La caratteristica principale del Disturbo da gioco d’azzardo sembra essere un comportamento di gioco disadattivo persistente e ricorrente che sconvolge l’equilibrio personale, familiare e sociale. La persona appare completamente assorbita dal gioco, ha bisogno di una sempre maggiore quantità di soldi, presenta difficoltà nel controllarsi, nel fermarsi, ridurre l’attività di gioco; il gioco le permettere di eludere le tensioni della propria quotidianità, mente ai propri cari, tende a minimizzare la portata delle perdite ed è capace di compiere azioni illegali per coprire le eventuali perdite, tutto è in secondo piano comprese le sue relazioni significative … rinunciando spesso alle proprie responsabilità quotidiane.
Alcune persone affetta da gioco d’azzardo patologico sono impulsive, competitive, eccessivamente energiche e irrequiete. Non è raro osservare una certa preoccupazione per l’approvazione altrui ed una forma di generosità quasi estrema, quando si vince. Oltre che all’aspetto comportamentale, da un’attenta analisi è possibile rilevare la presenza di distorsioni nel pensiero (per esempio, la negazione, la superstizione, un senso di potere e di controllo degli eventi). Alcuni individui sono affetti da depressione e tristezza e possono utilizzare il gioco come mezzo per modulare il proprio stato emotivo. Non è chiaro il meccanismo eziologico ma è possibile ipotizzare che una struttura di personalità fragile, impulsiva, con difficoltà relazionali o sociali possa rappresentare un terreno fertile per l’instaurarsi del problema, spesso aggravato dalla presenza di altre patologie psichiche, quali ansia e depressione. Alcune aspetti interessanti da rilevare per la comprensione del gioco patologico, sono l’alexitimia e la dipendenza. La prima fa riferimento ad un particolare stile cognitivo-emotivo caratterizzato dalla difficoltà nel riconoscere e comunicare le proprie emozioni. In genere, chi evidenzia tale problema ha spesso l’impressione di non riuscire a descrivere i propri sentimenti, quasi come se non ci fosse una vita emotiva di cui parlare. La seconda fa riferimento alla scarsa definizione dei confini dell’io con assenza di autonomia funzionale. Queste particolare stato riguarda le persone che appaiono immaturi e incapaci di assumersi le responsabilità della vita e con bassa tolleranza alle frustrazioni.
Il disturbo da gioco d’azzardo se precocemente diagnosticato può essere trattato efficacemente da terapeuti esperti. Allo stato attuale non esiste un trattamento standard per il gioco d’azzardo patologico, gli studi sulla psicoterapia cognitivo- comportamentale suggeriscono questo approccio che comprende, fra le altre, interventi di Ristrutturazione cognitiva, Problem solving e Social skills training.

Dott. Rossano Bisciglia

per informazioni:

info@studiocoradeschi.org

tel: o575 354935

 

Incontro gratuito: KEEP CALM AND RELAX YOURSELF

stress seminario

Gioved 17 Aprile,

ore 20:30 presso il palazzetto del Nuoto, (Stadio)

Incontro gratutito: KEEP CALM AND RELAX YOURSELF

Imparare a gestire lo stress

Il Dott. Bisciglia e la Dott.ssa Mannelli affronteranno quali temi dell incontro, la Gestione dello stress, dell ‘ ansia e delle emozioni difficili in genere, attraverso la pratica della “presenza mentale” per lo sviluppo della consapevolezza quale fondamento del benessere psico-fisico

Vi aspettiamo

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