Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

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DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’

narcisismo

A CURA DI DOTT. ROSSANO BISCIGLIA

ll Disturbo Narcisistico di Personalità (DNP) è un disturbo di personalità che presenta caratteristiche cliniche e di trattamento generalmente complesse. Il quadro clinico del disturbo si delinea fondamentalmente su tre aree che riguardano:

1) idea grandiosa di sé riscontrabile nella tendenza a considerarsi superiori agli altri, a comportarsi in modo saccente e presuntuoso perché convinti di essere “persone speciali”;

2) costante bisogno di ammirazione da parte delle persone con cui si entra in relazione. Tali individui saranno idealizzati o svalutati a seconda che riescano a riconoscere lo status di unicità del narcisista.

3) mancanza di empatia, ovvero, l’incapacità di mettersi nei panni degli altri, difficoltà nel riconoscere e validare i desideri e sentimenti degli altri. Esiste un unico punto di vista corretto, il loro.

Se da un lato il disturbo presenta caratteristiche di grandiosità, esiste un altro lato in cui invece emergono sentimenti prevalenti di inferiorità, vulnerabilità e sensibilità spiccata alle critiche. I due lati di superiorità e vulnerabilità spesso coesistono ma il narcisista si sforza quotidianamente di mostrare solo il lato più funzionale per lui: quello della grandiosità. Mostrarsi fragile vorrebbe dire connettersi con quella sofferenza che nel corso del tempo ha imparato a tenere ben nascosta.

Come si manifesta il Disturbo Narcisistico di Personalità?

È frequente che la persona si rivolga allo specialista riferendo un quadro sintomatico caratterizzato da emozioni negative e problemi relazionali indefiniti che solo dopo un’attenta valutazione risultano essere la conseguenza del mancato soddisfacimento di un bisogno di riconoscimento per esempio in ambito lavorativo, sociale o familiare. Tale mancanza genera nella persona sentimenti di fallimento e di inadeguatezza, a volte poco consapevoli, che risultano difficili da gestire e che inevitabilmente intaccano la propria autostima. Il quadro emotivo negativo che ne deriva è frequentemente gestito con resa, contrattacco o evitamento:

  • senso di fallimento;

  • rabbia che può essere rivolta verso se stessi o verso gli altri (maltrattamenti fisici e psicologici, tendenza a colpevolizzare e svalutare l’altro perché non riconosce la sua superiorità o grandiosità);

  • uso di sostanze, gioco d’azzardo, eccessiva attività sessuali o qualsiasi comportamento atto a mantenere la sofferenza il più distante possibile.

Quali sono le cause del disturbo?

La letteratura mette in evidenza diverse cause all’origine del disturbo fra le quali troviamo:

  • Apprendimento: genitori che sostengono e favoriscono un’immagine grandiosa del figlio, o al contrario un ambiente familiare invalidante incapace di fornire al bambino cure e attenzioni, di regolare le sue emozioni e sostenere la sua autostima. Un simile atteggiamento predisporrebbe la persona a divenire autosufficiente e a lottare per ricevere quell’attenzione e ammirazione negata.

  • Un’altra ipotesi è la presenza di famiglie isolate socialmente. Questo potrebbe essere vissuto dal bambino in modo negativo nel confronto con il gruppo dei pari, i quali frequentemente evidenziano ancora di più tale diversità con offese e umiliazioni nei confronti del bambino e della sua famiglia. Il futuro adulto imparerebbe a contrastare questa minaccia all’autostima sviluppando un senso di superiorità.

In cosa consiste il trattamento psicoterapeutico

Ponendo estrema attenzione alla relazione terapeutica la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) classica prevede interventi mirati alla comprensione e alla modificazione di modalità di pensiero disfunzionali, quali il “pensiero tutto o nulla” che si riscontra nella tendenza a considerare cose e persone totalmente positive o totalmente negative. Il lavoro terapeutico è teso a modificare tale pensiero in una forma più sana e coerente con la realtà. Di fondamentale importanza sono gli interventi mirati alla promozione dell’autoriflessività, ovvero la capacità di accedere agli stati interni (ad esempio, pensieri, emozioni) e di capire il nesso tra pensieri, emozioni ed eventi relazionali attivanti; la ricostruzione degli schemi Sé/Altro disfunzionali, la riduzione della tendenza a regolare le proprie scelte solo sulla base di valori o desideri finalizzati all’incremento dell’autostima.

L’esperienza clinica e la letteratura mettono in evidenza come il trattamento del Disturbo Narcisistico di Personalità possa presentare qualche difficoltà se non integrato con approcci che prevedono un allargamento del modello CBT classico. In particolare la Schema Therapy proposta da Jeffrey E. Young propone un modello in cui pone al centro del trattamento il riconoscimento e il soddisfacimento dei bisogni emotivi primari della persona (accettazione, cura, stabilità, sicurezza, limiti realistici, autocontrollo, autonomia etc). Tali bisogni insoddisfatti spingerebbero la persona a sviluppare degli schemi maladattivi precoci che la guidano attraverso pensieri, emozioni, percezioni che sono coerenti con lo schema. Tali schemi sarebbero poi mantenuti dai comportamenti che l’individuo mette in atto nel suo vivere quotidiano. Schemi tipici nel disturbo narcisistico di personalità sono quelli di Deprivazione emotiva, Inadeguatezza, Pretesa, Punizione.

Per maggiori informazioni è possibile consultare l’articolo “Schema Therapy. Un approccio per le difficoltà emotive di lunga durata” all’interno del sito alla sezione News.

Mindfulness e Meditazione come Prevenzione allo Stress sul Lavoro

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Dalla conferenza internazionale sulla Mindfulness di Roma, 12-15 Maggio 2016

di Elena Mannelli

Si è conclusa la settimana scorsa un importante conferenza  alla quale ho avuto la fortuna di partecipare sul tema della Mindfulness.

Quattro giornate piene ed intense che hanno dato spazio e voce alle più importanti voci internazionali che si occupano di questo tema segnale evidente dell’importanza e della rilevanza che la Mindfulness sta catturando nel panorama scientifico e psicoterapeutico.

Il concetto di Mindfulness deriva dagli insegnamenti del Buddismo, dello Zen, e dalle pratiche di meditazione yoga, ma solo dagli anni settanta negli Stati Uniti per opera di un medico del Massachusetts: Kabat-Zinn, questo modello è stato assimilato ed utilizzato come paradigma autonomo in alcune discipline mediche e psicoterapeutiche italiane, europee e d’oltre oceano.

Secondo la definizione di Kabat-Zinn, Mindfulness significa “porre attenzione al momento presente in un modo intenzionale, partecipatorio e non giudicante”. La pratica della Mindfulness, infatti, favorisce la possibilità di essere in relazione con se stessi e sviluppare consapevolezza su come il proprio mondo interno sia in rapporto con il mondo in cui siamo immersi, momento dopo momento.

Molti sono stati gli interventi interessanti durante le giornate del convegno. Uno di questi riguarda la mindfulness come fattore protettivo e come fattore di prevenzione per una categoria molto particolare di professionisti: gli insegnanti.

Molto è stato sin oggi scritto e detto circa l’effetto protettivo e terapeutico della meditazione e delle pratiche mindfulness sullo Stress; non casualmente il primo protocollo nato è proprio il MBSR Mindfulness Based Stress Reduction, un programma scientifico di Jon Kabat-Zinn e collaboratori sviluppato inizialmente presso la Medical School dell’Università del Massachusetts (U.S.A) che da oltre 30 anni (1979), viene proposto in più di 400 ospedali negli Stati Uniti e in Europa nel contesto della medicina integrativa, ovvero la mind-body medicine, la quale vede corpo e mente come un’unità che chiede di essere compresa senza rigide divisioni.

L’efficacia sullo stress vale anche per coloro che si interfacciano a realtà fortemente stressanti come gli operatori negli ospedali (inferiemieri, oss, medici) o coloro che lavorano in reparti “difficili” come la psichiatria e l’oncologia, e oggi risulta sempre più chiaro come l’ l’effetto di pratiche di consapevolezza abbia ottimi risultati anche su una particolare categoria di professioni a rischio, che sono gli insegnanti, e di conseguenza sui bambini e risulta quindi rilevante l’importanza della mindfulness anche nei contesti educativi, non solo clinici.

Per l’articolo in forma estesa dal reportage sul convegno:

http://www.stateofmind.it/2016/05/mindfulness-burnout-professioni/

Il trattamento dell’insonnia nel paziente psichiatrico: farmaci e psicoterapia cognitivo-comportamentale

ROMA 20 MAGGIO 2016

congresso roma insonnia

Sede: Centro Convegni ‘‘Villa Palestro’’ – via Palestro, 24 Roma

La Partecipazione è GRATUITA
Scuola di Psicoterapia Cognitiva s.r.l.
E’ previsto l’accreditamento ECM ( 4 crediti ECM )
ed un attestato di partecipazione

PROGRAMMA

9.30 – 9.45 DR. DAVIDE CORADESCHI
Presentazione giornata
9.45 – 10.15 DR.SSA ALESSANDRA DEVOTO
La valutazione clinica e i
modelli teorici dell’insonnia
10.15 – 10.30 PROF.SSA CATERINA LOMBARDO
L’insonnia come fattore trans-diagnostico
10.30 – 11.00 Intervallo
11.00 – 11.30 PROF.SSA FIORENZA GIGANTI
La percezione del sonno e dei suoi
segnali nel soggetto insonne
11.30 – 12.00 DR.SSA LAURA PALAGINI
Il trattamento dell’insonnia nel paziente psichiatrico
12.00 – 12.30 DR. DAVIDE CORADESCHI
Terapia cognitivo-comportamentale
dell’insonnia in studenti ed anziani:
confronto tra due interventi
multicomponenziali.
12.30-13.00 DISCUSSIONE
13.00-13.30 QUESTIONARIO ECM

EMDR: cos’è e come funziona

Il trauma è uno stimolo eccessivo, qualcosa di sconvolgente che capita all’improvviso e che fa sentire sopraffatti e impotenti, incapaci di reagire e di affrontare la situazione. È un evento spartiacque. Le persone che lo vivono  fanno spesso riferimento ad un prima ed un dopo, a qualcosa che ha segnato un profondo cambiamento di vita. Un cambiamento che non sempre è facile da elaborare e superare. Occorre entrare in ciò che ha ferito, provare ad accettarlo e ad elaborarlo, fino a mitigare la sua presenza per non ostacolare più il normale svolgersi della vita affettiva e lavorativa quotidiana. In modo da trasformarlo in una sorgente di crescita interiore.

l’EMDR: acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing – rappresenta senz’altro uno degli approcci terapeutici più efficaci le reazioni post-traumatiche.

Nato come una tecnica innovativa, l’EMDR sfrutta i movimenti oculari da stimolazione bilaterale alternata per facilitare ed accelerare la desensibilizzazione e l’elaborazione di eventi traumatici disturbanti. Nell’ultimo decennio, ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, che l’hanno accreditato come una terapia elettiva per il disturbo da stress post – traumatico: nel 2000 l’EMDR è stato inserito nelle linee guida dell’International Society for Traumatic Stress Studies, nel 2001 anche lo United Kingdom Department of Health lo ha inserito tra le terapie evidence based. Nel 2002, è stato riconosciuto dall’Istraeli National Council for Mental Health come uno dei tre metodi più consigliati per il trattamento delle vittime di atti terroristici.

Chi potrebbe beneficiare di una terapia con EMDR?

-Tutte le persone che hanno vissuto esperienze molto dolorose che, anche a distanza di anni, sembrano non voler lascare la mente e il corpo; queste sensazioni dolorose bloccano e impediscono di vivere una vita soddisfacente a livello lavorativo, fisico, relazionale, scolastico, ecc.

-Tutte le persone che stanno vivendo un periodo doloroso o traumatico.

-Tutte le persone che vogliono aumentare la loro prestazione sportiva, lavorativa, scolastica, ecc.

Ecco alcuni esempi in cui l’EMDR e’ ampiamente utilizzato nel nostro studio:

  • Traumi con la T maiuscola, ovvero situazioni che minacciano potenzialmente la vita della persona o di un’altra. Ad esempio: abusi fisici e sessuali, gravi incidenti stradali, catastrofi naturali, tentati omicidi, tentato suicidio o aver assistito ad un suicidio, gravi incidenti sul luogo di lavoro, rapine, grave malattia, grave malattia di una persona cara, ecc.
  • Malattie e disturbi fisici: fibromialgia, dermatiti, disturbi gastrointestinali, esiti di ictus e infarti, malattie autoimmuni, disturbi del sonno, problematiche sessuali, ecc.
  • Attacchi di Panico e disturbi d’ansia.
  • Depressione e Lutti complicati.
  • Mobbing, stalking, bullismo.
  • Momenti critici di vita: divorzio, licenziamento, ecc.
  • Ansia sociale, paura di parlare in pubblico, fobie specifiche.
  • Problemi nelle prestazioni sportive.
  • E molto altro.

A che età e’ possibile iniziare un percorso con EMDR?

L’EMDR e’ una terapia adatta per adulti, adolescenti e bambini. Con i bambini il lavoro con EMDR è particolarmente veloce ed efficace perché la capacità di auto guarigione del cervello dei bambini è molto più intatta di quella di adulti con storie di vita molto lunghe e complesse.

 

Le nostro studio si occupano di EMDR

la Dr.ssa Chiara Mercurio  Terapeuta EMDR di II livello e Emdr Praticioner

la Dr.ssa Giovanna Mengoli Terapeuta EMDR di II livelloEmdr Praticioner

la Dr.ssa Elena Mannelli Terapeuta EMDR di II livello

 

 

 

 

 

 

 

EMDR

BASSA AUTOSTIMA NUCLEARE NEI DISTURBI ALIMENTARI

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A cura di dott. Rossano Bisciglia

La bassa autostima è uno dei fattori di mantenimento nell’ambito dei disturbi del comportamento alimentare. Secondo l’approccio cognitivo comportamentale i fattori di mantenimento rappresentano tutto ciò che contribuisce ad alimentare le difficoltà della persona. E’ ragionevole ipotizzare che la bassa autostima possa essere precedente al disturbo alimentare e che coinvolga, nella stragrande maggioranza dei casi, diverse aree di vita della persona. Questa è la motivazione per cui si parla di bassa autostima nucleare. Nello specifico dei disturbi alimentari, la persona tenta, attraverso il controllo dell’alimentazione, delle forme del corpo e del peso, di raggiungere una qualche forma di valore personale.

Gli aspetti principali della bassa autostima nucleare sono:

  • visione negativa del proprio valore che risulta essere incondizionata, pervasiva e non secondaria alla presenza di nessuna forma di depressione clinica significativa;

  • visione negativa del futuro e della possibilità di cambiamento;

  • compromissione del ragionamento cognitivo.

Nell’ambito dei disturbi alimentari, la bassa autostima nucleare funge da apripista in quanto la visione di sé negativa si concretizza in pensieri negativi e comportamenti disfunzionali che determinano e mantengono una valutazione disfunzionale della proprie forme del corpo, del peso e del cibo considerati spesso, come unica fonte di valore per la propria autostima. La valutazione negativa del proprio corpo spinge la persona ad impegnarsi in restrizioni alimentari che conducono poco dopo tempo direttamente alle abbuffate. L’incapacità di controllare la restrizione e la conseguente abbuffata innesca i sensi di colpa che saranno gestiti attraverso comportamenti di compenso, per esempio il vomito o esercizio fisico eccessivo e compulsivo. Tale esperienza ripetuta nel tempo mantiene la bassa valutazione di se stessi.

La terapia cognitivo comportamentale è considerata ad oggi il modello di trattamento psicologico di elezione per i disturbi del comportamento alimentare. Il protocollo terapeutico prevede una valutazione e un intervento specifico e mirato per lavorare sulla bassa autostima nucleare:

  • educazione personalizzata sui processi di mantenimento: insieme alla persona si conduce un lavoro di esplorazione sulla possibilità che la bassa autostima possa verificarsi in concomitanza con uno schema disfunzionale di autovalutazione (cioè un grafico a torta sbilanciato) che conduce la stessa a focalizzarsi solo in quelle aree di vita (in genere ristrette) a cui attribuisce valore.

  • Identificazione e messa in discussione dei processi cognitivi disfunzionali:

  1. svalutare le qualità positive e focalizzarsi su quelle negative;

  2. attenzione selettiva alle informazioni che sono coerenti con la visione negativa di sé;

  3. doppio standard, ovvero avere un atteggiamento molto severo verso se stessi e molto indulgente verso gli altri;

  4. ipergeneralizzazione, ovvero considerare una singola esperienza negativa come prova che “certamente” anche in futuro tutto andrà male;

L’obiettivo finale sarà quello di raggiungere una visione equilibrata del proprio valore. La prima parte del lavoro terapeutico è mirato a modificare la visione negativa di se stessi, mentre la seconda parte prevede: da una parte la riduzione dell’eccessiva preoccupazione verso il peso, il cibo e forme del corpo e dall’altra la promozione di nuovi domini di autovalutazione. Filo conduttore di tutto l’intervento sarà trovare un equilibrio fra l’accettazione e il cambiamento considerandolo segno di forza e di autodeterminazione personale.

L’IMPORTANZA DELLA CONTINUITA’ GENITORIALE DOPO LA SEPARAZIONE

L’importanza della continuità genitoriale dopo la separazione

 

Articolo a cura della dott.ssa Cristina Jacchia

 

Ciò che finisce con la separazione è la coppia, ma quando ci sono i figli un progetto importante non si conclude:

“il progetto Essere genitori”

 

Oggi alle persone che si separano si chiede di mantenere la continuità della coppia genitoriale pur in mancanza della continuità della coppia coniugale.

Molto spesso accade che la “continuità genitoriale” si frantumi a causa delle tante recriminazioni e rivendicazioni legate alle ferite inerenti la coppia, a causa di ciò può accadere che il bambino diventi una pedina in mano ad un genitore o ad entrambi. Questo avviene quando anche per gli ex coniugi non è molto chiaro che il progetto coppia e il progetto genitoriale sono vicini, ma distinti e, nel momento in cui finisce la coppia, bisogna continuare ad impegnarsi per mantenere attivo il progetto che riguarda la genitorialità.

Essere genitori insieme dopo la separazione significa continuare a decidere insieme (in modo coerente e condiviso precedentemente) come aiutare i propri figli a raggiungere le loro autonomie e, quindi, essere d’accordo sui NO fondamentali e su regole di base che entrambi i genitori ritengono essenziali, questo dà stabilità e sicurezza ai figli.

La distinzione tra progetto “essere coppia” e progetto “essere genitori” è importante che sia chiara prima di tutto ai genitori, che in questo modo aiuteranno i figli a metabolizzare il distacco dovuto alla separazione, ma al contempo, infondere loro la sicurezza che saranno una “coppia” genitoriale per sempre. Infatti, sperimentare la separazione non è traumatico per i figli di quei genitori che riescono, dopo la separazione, a dare continuità al legame parentale, accordandosi sulle scelte più opportune per loro, mantenendo un coerente riferimento affettivo ed educativo, conservando intatta nella mente dei ragazzi quella immagine rassicurante così importante per la loro crescita e riuscendo ad offrire loro un aiuto per affrontare la sofferenza del cambiamento.

Per quelle coppie, invece, dove l’astio e il rancore rischiano di essere più forti del loro ruolo genitoriale potrebbe essere importante fare un parent training specifico per i genitori separati dove l’obiettivo sarà quello di conciliare la coerenza educativa e la presenza di entrambi nella vita dei figli imparando a distinguere bene tra dinamiche di coppia disfunzionali e genitorialità orientata al benessere dei figli, acquisendo così strumenti, tra cui una comunicazione efficace, una consapevolezza e il riconoscimento delle dinamiche coniugali che interferiscono nelle dinamiche genitoriali e imparare a prenderne le distanze al fine di permettere agli ex partner di continuare il progetto “essere genitori” in modo utile a tutte le persone coinvolte, ma soprattutto volto a dare coerenza, stabilità, calore e sicurezza ai figli.

Nell’ottica della terapia cognitivo comportamentale il parent training in queste situazioni è vivamente suggerito e sostenuto da ricerche che ne dimostrano l’efficacia.

 

Cosa fare e cosa non fare dopo la separazione

per garantire una coerenza educativa

 

  • Non parliamo ai bambini delle colpe o dei problemi dell’altro genitore.
  • Non chiediamo mai ai bambini a chi dei genitori vuole più bene o con chi preferisce stare. Questo mette sulle loro spalle uno stress grandissimo ed enormi sensi di colpa verso il genitore “non scelto.” E’ una vera violenza nei loro confronti.
  • Se c’è bisogno di comunicare qualcosa che riguarda le questioni economiche legate al mantenimento è necessario parlarne lontano dalla presenza dei figli.
  • Chi va a prenderli, quando, quanto tempo passerà con uno dei due genitori … sono tutte informazioni che è importante aver chiarito prima e separatamente dai figli in modo da non mettere in difficoltà il ragazzo che si trova a dover giustificare la mancata comunicazione “ma la mamma mi aveva detto così, forse non aveva capito..” “il papà mi ha detto che verrà alle 18 se vuoi lo chiamo così gli dico di venire prima”… non sono loro a dover organizzare queste cosa, ma hanno bisogno di sentire che, in questo, i genitori sono d’accordo ed è anche in questo modo che la sicurezza e la coerenza della coppia genitoriale viene garantita ai figli.
  • Condividiamo almeno 3 regole valide in entrambe le case che i figli frequentano; questo è un buon segnale di coerenza educativa.
  • Se ci sono problemi di comunicazione è importante trovare una strategia diversa da quella di “lo dico a te che lo dici al babbo” e optare per una comunicazione scritta nell’immediato o per un percorso di sostegno psicologico che possa aiutare i due ex partner a usare strategie comunicative più funzionali
  • Se il padre o la madre vivono una nuova situazione sentimentale è molto importante non confondere il ruolo del nuovo partner con un ruolo genitoriale, piuttosto può nel tempo diventare una figura educativa di riferimento. Facciamo, inoltre attenzione ai segnali dei nostri figli quando introduciamo una nuova figura affettiva nella loro vita. Potrebbero essere compiacenti con un genitore, ma vivere sentimenti ambivalenti nei confronti dell’altro genitore “se mi piace la nuova fidanzata di papà, forse mamma non sarà felice” rassicuriamoli che se si sente bene, a noi va benissimo che si senta felice anche con la nuova fidanzata di papà.
  • Se introduciamo una nuova figura affettiva nella vita di nostro figlio dobbiamo essere abbastanza sicuri della nostra scelta, è importante infatti, non far vivere a breve una nuova separazione ai nostri figli dopo aver creato un legame e una nuova speranza di famiglia.

I nostri figli possono reagire in modo diverso non solo in base al carattere ma anche in base all’età. Per esempio:

  • I più piccoli spesso reagiscono con aggressività o non collaborando. Spesso si ritirano in loro stessi o sviluppano problemi legati all’ansia da separazione (fisicamente possono avere spesso mal di pancia o mal di testa, a livello comportamentale possono non voler andare a scuola o allontanarsi dai genitori, potrebbero anche comportarsi benissimo … anche troppo bene), potrebbero rifiutarsi di frequentare uno dei due genitori.
  • I più grandi invece possono sentirsi molto tristi, come fossero in lutto. Possono andare male a scuola o avere problemi di comportamento fino a sfociare in comportamenti antisociali.
  • I giovani invece possono avere problemi nelle proprie relazioni amorose e di autostima.

Farci attenti ai problemi dei nostri figli è un compito arduo, in quanto anche noi adulti stiamo vivendo un momento molto difficile; la separazione dal partner è infatti uno degli eventi stressanti più impegnativi da superare e che può comportare non solo nei figli, ma anche nei coniugi problemi di tipo psicologico (depressione reattiva, ansia, disturbi di panico). A causa di ciò non è sempre facile vedere i segnali di sofferenza che i bambini/ragazzi mostrano più o meno esplicitamente.

Ricordiamoci che non dobbiamo per forza combattere da soli. Durante e dopo una separazione o un divorzio potremmo avere bisogno di un aiuto professionale… per noi e/o per i nostri figli. Un percorso psicoterapeutico può aiutare.

 

Come spiegare la separazione ai figli

Articolo a cura della dott.ssa Cristina Jacchia

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La separazione o la minaccia di separazione dei genitori rappresenta quasi sempre un momento difficile per i figli.

Ogni bambino trae dall’unione positiva e dalla reciprocità affettiva dei genitori la costruzione della sicurezza di base, la fiducia nel mondo adulto e la rassicurazione circa la capacità di poter ricevere affetto e cure nel presente e nel futuro, oltre che la speranza di poter a propria volta costruire, una volta diventato adulto, una relazione positiva con il partner.

Molte coppie in crisi decidono di restare insieme per il bene dei figli, ma recenti ricerche dimostrano che i figli di genitori

separati hanno la stessa probabilità di sviluppare disturbi psicologici dei figli di genitori non separati che mantengono una relazione conflittuale (Bringhenti 2014).
I ragazzi sono spesso esposti ai litigi, perché in un momento di crisi la coppia fatica a regolare le proprie emozioni tanto da arrivare a discutere quasi sistematicamente davanti ai figli … quando accade ciò nella maggior parte dei casi i figli hanno assistito all’incipit dello scontro, ma non alla conclusione … è assolutamente importante comunicare in un momento di pace ai ragazzi (di qualsiasi età) che la

situazione si è ridimensionata (Gottman), è sempre necessario ricordarsi di rispettare le piccole persone che coinvolgiamo senza volerlo nei nostri litigi e, come li abbiamo coinvolti nella discussione, hanno diritto e bisogno di essere rassicurati su come è andato a finire in quanto se ciò non avviene potrebbe creare in loro disorientamento e timore:

“hai visto ieri io e il babbo, o io e la mamma abbiamo, discusso e non è stato bello, ma stamani stiamo meglio.. oppure ci siamo chiariti, oppure te non c’entri, mi dispiace per quello che è successo..”

Ancora più importante diventa a questo punto comunicare la separazione … le dinamiche di coppia non sono affar loro, ma la separazione di una famiglia li coinvolge in modo diretto … hanno bisogno della presenza empatica e attenta di entrambe i genitori per accogliere un’informazione non semplice da elaborare! Spesso per i genitori non è automatico operare in tal senso, perché le loro energie emotive e le risorse affettive sono diminuite a causa della crisi che stanno attraversando, ma cerchiamo di comprendere meglio cosa fare e cosa non fare.

COME COMUNICARE AI FIGLI CHE CI STIAMO SEPARANDO

COSA FARE

  •   Decidiamo insieme cosa dire ai nostri figli prima, per offrire loro una certa coerenza e

    stabilità almeno nella comunicazione.

  •   Bisogna essere sempre in due,mamma e papà, a dare la notizia ai bambini/RAGAZZI.
  •   Scegliamo un luogo tranquillo e familiare, preferibilmente a casa, meglio se lontano dai

    pasti.

  •   Usiamo termini semplici e diretti. È sempre meglio spiegare le difficoltà esistenti invece di

    negarle: anche i bambini molto piccoli si accorgono della tensione esistente tra i genitori.

  •   Specifichiamo che la separazione/il divorzio non è colpa loro.
  •   Ammettiamo che sarà triste e difficile ANCHE per noi genitori.
  •   Rassicuriamo i bambini di amarli sempre e che per sempre saremo i loro genitori, che ci

    vogliamo bene ma non andiamo più così d’accordo da stare insieme.

  •   Rassicuriamoli che continueremo non solo a interagire con loro, ma che saremo presenti

    nelle loro attività anche se come coppia non vivremo più insieme.

  •   Diamo loro la possibilità di farci domande alle quali dovremo dimostrarci pronti almeno a

    non contrastarle, ma ad accoglierle.

  •   Accogliamo le loro reazioni emotive (possono piangere, arrabbiarsi, accusarci, rimanere in

    silenzio, uscire con gli amici, fare domande che non c’entrano nulla).

    COSA NON FARE

  •   Evitare di comunicare ai figli che ci stiamo separando, tanto non capiscono o non è una

    cosa che li riguarda … nella maggior parte dei casi sanno già cosa sta accadendo, i figli tendenzialmente non ci ascoltano, ma ci osservano, si danno mille spiegazioni di ciò che vedono e spesso tendono a trovare in loro qualche responsabilità di ciò che osservano “sarà colpa mia se hanno litigato”

  •   Scegliere in un momento di rabbia di dire ai figli, in assenza del partner, che non ne possiamo più e che dobbiamo separarci, a volte accade anche senza averne mai parlato in modo chiaro tra partner che i figli diventino una valvola di sfogo. Questo crea un forte disorientamento.
  •   Parlare male del partner davanti ai figli. Questa cattiva abitudine conduce i figli a sentire di doversi schierare, sviluppano sensi di colpa nei confronti dell’altro genitore se provano piacere a passare del tempo con la mamma o con il papà, tendono a scegliere di tenere nascosti alcuni dettagli per paura di ferire il genitore o di farlo sentire tradito. Si rischia di scivolare in una vera e propria inversione di ruolo in cui il figlio si prende cura del genitore.
  •   Cacciare il/la partner davanti ai figli gettando vestiti o presentando la valigia, sono scene che resteranno impresse a vita negli occhi e nel cuore dei nostri figli.
  •   Chiedere rassicurazioni al proprio figlio “vero che mi vuoi bene?” ricordiamoci che sono loro, prima di noi ad avere bisogno di essere rassicurati del nostro amore.

    Non è quindi la separazione in sé ma il modo di affrontarla e di farla vivere ai figli che produce conseguenze negative, quando vengono a mancare ai bambini e agli adolescenti i riferimenti di vicinanza e di sicurezza affettiva indispensabili per la definizione della propria identità.

    Nei casi in cui la difficoltà tra i partner è troppo accesa da poter comunicare efficacemente la separazione ai figli è opportuno farsi aiutare da un esperto. Lo studio Coradeschi ha validi esperti che hanno accompagnato molte coppie a vivere e far vivere la separazione ai figli in modo più lineare possibile, offrendo ai genitori strumenti validi volti ad affiancare i figli in un passaggio non facile come la comunicazione della separazione e tutto ciò che ne consegue.

Disturbo Disforico Premestruale: come riconoscerlo e come curarlo

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I Disturbi dell’ Umore sono un fenomeno psicologico, ma anche sociale, estremamente importante e spesso troppo sottovalutato.

L’ OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) riferisce che la depressione, per esempio, affligge più di 350 milioni di persone di tutte le età e comunità e rappresenta attualmente uno dei principali responsabili del carico globale di malattia e colpisce prevalentemente donne.

Tuttavia si tratta di problematiche che spesso non raggiungono l’attenzione degli specialisti, questo è vero anche per una nuova categoria diagnostica chiamata Disturbo Disforico Premestruale che si differenzia dalla Sindrome Premestruale.

Con l’uscita del nuovo manuale dei disturbi psicologici (DSM 5) infatti, i disturbi dell’umore sono stati ulteriormente approfonditi ed è nata la nuova categoria a se stante dei Disturbi Depressivi sebbene fu Ippocrate a rendersi conto per primo di una stretta correlazione tra ciclo della donna e sintomi psicologici.

Nella precedente edizione (DSM-IV TR), nell’ampio capitolo dei “Disturbi dell’umore” erano inclusi sia i Disturbi Depressivi (unipolari) sia quelli bipolari, attualmente invece sono stati suddivisi e tra i Disturbi Depressivi vengono segnalati:

il disturbo Depressivo Maggiore, il disturbo da Disregolazione dell’Umore dirompente, il disturbo Depressivo Persistente (distimia), e il disturbo Disforico Premestruale.

E’ proprio quest’ultimo che rappresenta una novità nel panorama nosografico e diagnostico degli ultimi anni.

La caratteristica che accumuna questi quadri è la presenza di umore triste o irritabile, accompagnato da una sintomatologia fisica e psicologica che incide significativamente sul funzionamento quotidiano.

In particolare il disturbo Disforico Premestruale, nella precedente edizione, era nella sezione in appendice, assieme alle altre condizioni soggette ad ulteriori studi.

Con il nuovo testo, e dopo 20 anni di studi e di ricerche, queste hanno individuato una forma di disturbo depressivo specifica e responsiva al trattamento che comincia talvolta dopo l’ovulazione e si risolve entro pochi giorni dal ciclo mestruale ed ha un marcato impatto sul funzionamento.

I criteri diagnostici pertanto sono:

A. Per la maggior parte dei cicli mestruali, la settimana precedente al ciclo,devono essere presenti almeno 5 dei sintomi con una remissione entro pochi giorni dall’inizio di questo fino a scomparire nella settimana successiva.

B.Uno tra: labilità dell’umore (sbalzi di umore, sentirsi tristi d’improvviso, avere una maggiore tendenza al pianto), irritabilità e aumento dei conflitti interpersonali e della rabbia, umore depresso o pensieri autocritici, ansia e sensazione di avere i nervi a fior di pelle.

C.Uno o più tra i seguenti sintomi (in aggiunta fino ad arrivare ad almeno cinque): diminuito interesse per le attività abituali, difficoltà soggettiva di concentrazione, faticabilità o mancanza di energia, alterazione dell’appetito, alterazione del sonno, senso di essere fuori controllo, sintomi fisici come tensione al senso, dolori articolari o muscolare, sensazioni di gonfiore o aumento di peso.

D. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o interferenza con le attività quotidiane

E. l’alterazione non è l’incremento di sintomi di un altro disturbo psicologico

F. il criterio A deve essere confermato per almeno due cicli

G. i sintomi non sono attribuibili all’effetto di sostanze o ad altra condizione medica

Questi sintomi devono verificarsi nella maggior parte dei cicli durante l’ultimo anno e tipicamente raggiungono l’apice intorno ai giorni prima del ciclo, pere andare verso la remissione totale con l’inizio delle mestruazioni. Infatti ci deve essere un periodo libero da sintomi nella fase follicolare (che è quella che comincia con il ciclo sino all’ ovulazione).

I sintomi sono paragonabili a quelli di un disturbo dell’umore per gravità, ma non per durata.

Questo quadro è differente dalla Sindrome Premestruale (per la quale non vi è bisogno del raggiungimento di un certo numero di sintomi e soprattutto non sono necessari i sintomi di affettivi) che risulta pertanto più diffusa e meno grave del quadro di disturbo disforico che si stima abbia una prevalenza tra il 1,8 e il 5,8% delle donne.

La comorbidità con altri disturbi è piuttosto frequente in particolare con depressione maggiore e la depressione post-partum.

È importante non sottovalutare questa condizione che causa notevole disagio alla persona e impatta nel suo funzionamento a livello sociale e relazionale.

Ovviamente risente di aspetti culturalmente orientati; le ricerche riportano che le donne occidentali riferiscono maggiormente sintomi affettivi, mentre quelle non occidentali più sintomi somatici.

Risulta spesso sin troppo facile minimizzare questa condizione poiché “a causa di ormoni, poi passa” (che certamente risultano coinvolti) ma che invece causano distress interpersonale marcato.

Si tratta infatti di qualcosa di più complesso, ma allo stesso tempo sul quale è possibile intervenire con una terapia volta anche a proteggere dallo sviluppo o dalla ricaduta di ulteriori sintomi.

Sono state già studiate terapie sia farmacologiche che non farmacologiche in grado di portare a risultati sebbene ancora la letteratura non abbia riportato evidenze unanimi proprio a causa del fatto che si tratta di una diagnosi giovane. E’ infatti una “nuova” diagnosi che sicuramente sarà approfondita da ulteriori studi nell’ambito della ricerca scientifica.

Tuttavia almeno nei casi di lieve disturbo disforico alcune evidenze riportano come consigliati:

– esercizio fisico con attività aerobica di 30′ per 3 o 4 volte a settimana (che avrebbe un ruolo nell’aumento di endorfine)

– tecniche di rilassamento e meditazione

– fornire buone informazioni su una corretta igiene del sonno in modo da adottare un ritmo sonno-veglia stabile

– associare una dieta ricca di frutta verdura e cereali

– la psicoterapia cognitivo-comportamentale

– i farmaci sono indicati nelle forme più gravi con predominanza di sintomi psichici.

Il riconoscimento di questa patologia potrà fornire alle donne, ma anche ai medici e a chi si occupa di benessere fisico e mentale, l’opportunità di prendere in carico ( e in cura) qualcosa che per troppo tempo è stato sottovalutato.

Elena Mannelli

Elaborare i ricordi dolorosi che non riusciamo a lasciar andare via

Il dolore è ancor più dolore se tace

Giovanni Pascoli

A cura della Dr.ssa Chiara Mercurio

Quando si vive un’esperienza davvero sgradevole, due sono le cose che si possono fare, due sono le strade che si possono percorrere. Una è quella di guardare in faccia il ricordo di quell’esperienza, continuare a pensarci, a parlarne e a provare sensazioni al riguardo: può essere difficile, ma è come se ogni volta si desse a quel ricordo un piccolo morso, lo si masticasse per bene e lo si digerisse. Esso allora entra a far parte del nostro nutrimento e ci aiuta a crescere. E la parte che fa male si riduce sempre di più. Quando si dice che attraverso i momenti difficili si diventa più forti, è a questo che ci si riferisce.
Purtroppo a volte la gente percorre l’altra strada. Il ricordo è così doloroso, fa così male che lo si vuole solo scacciare, si vuole mettere un muro tra noi e lui, ci si vuole soltanto sentire bene e riuscire a tirare avanti la giornata. Questo funziona, almeno per un po’; ci dà sollievo. Ma il problema è che il ricordo non va via, è sempre lì, fresco come il giorno in cui il fatto è accaduto, sempre pronto a ripresentarsi per essere masticato completamente e digerito in modo da diventare parte del passato. E poi, ogni volta, c’è qualcosa che ci fa ripensare a quel ricordo, come se questo dicesse: “Ehi, ci sono anch’io, mi fai entrare adesso?”.
Ecco un esempio, quasi tutti noi, se camminando veniamo urtati incidentalmente da qualcuno forse ci secchiamo un po’ per qualche secondo, ma non di più, basta un: “Mi scusi”, e tutto finisce. Ma se la persona che viene urtata ha un mucchio di rabbia compressa dietro a quel muro, avrà la nostra stessa minima normale reazione, con in più tutto quel materiale che sta dietro al muro e che dice: “Anch’io”, per cui la persona sarà talmente fuori dai gangheri da essere pronta a litigare. E questo è il problema: il materiale che sta dietro al muro ci può saltare addosso in ogni momento e provocare in noi reazioni eccessive, rendere difficili le cose facili. E talvolta, non si sa come, si insinua in noi e ci fa sentire tristi o scoraggiati o cose del genere.
Così a volte la gente, quando si ammala per via di questi problemi, va da un terapeuta per farsi aiutare. E con il suo aiuto riesce a riafferrare ciò che ha cacciato dietro al muro: prende un pezzetto di quel ricordo, lo mastica per bene, lo digerisce e diventa molto più forte. Con l’EMDR accade qualcosa di molto simile a quanto succede con le altre terapie: si riesce a riprendere ciò che sta dietro al muro, se ne prende un pezzo, lo si mastica per bene, tutto qui. Solo che con l’EMDR si rivivono i vari pezzi del brutto ricordo molto più in fretta, magari si ripercorre un intero ricordo in sole due sedute, talvolta in più, talvolta in meno”.
Greenwald R. (2000)

L’approccio EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) parte dal presupposto che la specifica procedura di cui si avvale, abbia la capacità di attivare un meccanismo neuropsicologicamente innato e fisiologicamente orientato alla salute e all’autoguarigione. Quest’approccio terapeutico suppone, infatti, che ognuno di noi possieda le risorse utili per l’elaborazione emotiva e cognitiva dei ricordi dolorosi e traumatici, e che il terapeuta abbia il ruolo di facilitare tale processo.

La Dr.ssa Chiara Mercurio applica questo approccio nella pratica clinica sia con adulti che con bambini e adolescenti.

Bibliografia

Greenwald R. (2000), L’EMDR con bambini e adolescenti, Astrolabio, Roma.

La Dipendenza Affettiva.

 

La difficoltà della giusta distanza nelle relazioni.

dipendenza affettiva

A cura della dott.ssa Giovanna Mengoli

 

“In una fredda giornata d’inverno un gruppo di porcospini si rifugia in una grotta e per proteggersi dal freddo si stringono vicini. Ben presto però sentono le spine reciproche e il dolore li costringe ad allontanarsi l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li porta di nuovo ad avvicinarsi si pungono di nuovo. Ripetono più volte questi tentativi, sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non trovano quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza che consente loro di scaldarsi e nello stesso tempo di non farsi male reciprocamente.”

Arthur Schopenhauer

Quando parliamo di “confini” in una relazione parliamo della vicinanza e della distanza dall’altro, della nostra capacità di percepirci come persona, come un “Io”… un pò come dire “sono consapevole di dove inizio e dove finisco”.

Il confine definisce, protegge e delimita la nostra identità.

Non è semplice modulare la giusta distanza nelle nostre relazioni, soprattutto in quelle più significative. Questa possibilità non riguarda solo le nostre relazioni d’amore, ma anche le amicizie, i rapporti familiari e lavorativi. Se ci osserviamo possiamo vedere come ci muoviamo continuamente lungo questo asse della distanza-vicinanza.

La distanza è data dal tempo e dallo spazio: quanto del nostro tempo dedichiamo all’altro? Quanto del nostro spazio riempiamo con l’altro?

In generale, possiamo descrivere due modalità estreme di stare in relazione con l’altro, considerando nel mezzo, le infinite sfumature. Ad un estremo abbiamo la modalità in cui ci si fonde e confonde con l’altro, dimenticandosi di se stessi e della nostra identità, si vive in funzione dell’altro, mettendo da parte la propria vita. L’altro estremo troviamo la modalità in cui si entra in relazione con l’altro, ma mantenendo sempre un’estrema distanza interna, non riuscendo realmente ad entrare in relazione intima con l’altro.

Chi si identifica con la prima polarità vive spesso legami che sono connotati da uno status di dipendenza affettiva.

La dipendenza affettiva è uno stato patologiconel quale la relazione di coppia è vissuta come condizione unica, indispensabile e necessaria per la propria esistenza. È la conditio sine qua non aldilà della quale non è possibile sopravvivere. Diventa la linfa vitale di cui quotidianamente nutrirsi.

Chi vive questo tipo di dipendenza attribuisce all’altro, oggetto d’amore, un’ importanza tale da annullare se stessi, non ascoltando i propri bisogni e le proprie necessità, subordinandoli a quelli dell’altro, a volte non riconoscendoli. Tutto questo per evitare di affrontare la paura più grande: la paura dell’abbandono, la rottura della relazione!

Le relazioni che i soggetti affetti da dipendenza affettiva instaurano non sono casuali e neanche la scelta del partner lo è.

Tipicamente i soggetti che presentano questo disturbo hanno l’idea di essere incapaci di vivere da soli e di non essere in grado di affrontare gli eventi della vita. Si sentono smarriti, vuoti e inutili senza la presenza di una persona al loro fianco.

Per tale motivo chi soffre di dipendenza affettiva quando inizia una relazione pensa al brillante futuro di protezione che potrebbe avere con questa persona. Il partner si ingaggia in una relazione affettiva con questa tipologia di soggetto solo perché ha bisogno di sottomettere qualcuno su cui spesso esercitare la propria superiorità.

Sono dunque atteggiamenti e comportamenti che si incastrano perfettamente come la chiave alla serratura: ogni vittima esiste perchè esiste un carnefice e viceversa.

Il soggetto dipendente presenta spesso una scarsa autostima percependosi sbagliato, inadeguato e  incompetente; tale considerazione di sé lo rende insicuro e lo porta ad avere una bassa valutazione del proprio valore personale e delle proprie capacità.

Il partner del dipendente sceglierà proprio un partner con tali caratteristiche ovvero con delle aree di vulnerabilità che gli consentiranno di avvilire le debolezze di questa persona, sul piano del fisico, del carattere, della bellezza, dell’intelligenza, operando un costante confronto con un ipotetico altro sempre migliore. Alla lunga questo atteggiamento determina nel dipendente una maggiore insicurezza che porterà a reazioni di gelosia, di paura, “sicuramente sceglierà chi è meglio di me”.

Tutto questo porta nel dipendente alla formazione di un circolo vizioso che si autoalimenta, ovvero totale perdita di autostima e di autoefficacia, allerta continua, terrore della perdita, che si manifesta con un senso di ansia costante e un aumento nel controllo nella relazione, ad esempio cercando di comprendere la volontà e i piaceri dell’altro, cercando di fare stare bene il proprio partner anticipandone i desideri e perpetuando la dipendenza.

Uscire da questo tipo di dinamiche relazionali è un percorso tortuoso e difficile, ma il primo passo da fare è quello di iniziare ad amare se stessi e a mettersi al centro della propria vita, riconoscendo I propri bisogni come giusti e al pari di quello del partner.

Come scriveva la dott.ssa Robin Norwood nel libro Donne che amano troppo”:

“Quando amiamo troppo, in realtà non amiamo affatto perché siamo dominate dalla paura: paura di restare sole, paura di non essere degne d’amore, paura di essere abbandonate o ignorate…

E amare con paura significa soprattutto attaccarsi morbosamente a qualcuno che riteniamo indispensabile per la nostra esistenza. Amare in modo sano è imparare ad accettare e amare prima di tutto se stesse, per potere poi costruire un rapporto gratificante e sereno con un uomo “giusto” per noi”.

 

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