Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

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Emozioni …

A cura della dr.ssa Chiara Mercurio

Mi sento … ”triste”, “ansioso”, “arrabbiato”, “furioso”, “malinconico”, “deluso”, “angosciato”, “disgustato”, “ferito” …

Tutti gli esseri umani provano emozioni … e ognuno di noi ha delle credenze, idee, opinioni in merito ad esse: a cosa servono, qual è la loro causa, quanto durano, quanto e come è possibile gestirle, devono essere espresse oppure no, etc.
Le nostre credenze sulle emozioni influenzano il modo in cui le gestiamo: se siamo convinti, ad esempio, che l’ansia che stiamo provando in un determinato momento durerà per moltissimo tempo, o addirittura per sempre, cercheremo evitarla o di sopprimerla.
Ma a volte queste opinioni possono essere sbagliate, in questo caso si parla di “miti sulle emozioni”.
Ecco alcuni dei miti più comuni:
− C’è un modo giusto di sentirsi in ogni situazione.
− Far sapere agli altri che sto male è segno di debolezza.
− Le emozioni spiacevoli sono sbagliate e distruttive.
− Essere emotivi significa perdere il controllo.
− Le emozioni possono comparire senza alcuna ragione.
− Alcune emozioni sono davvero stupide.
− Tutte le emozioni dolorose derivano da atteggiamenti sbagliati.
− Se le altre persone non approvano le mie emozioni significa che non mi sarei dovuto sentire nel modo in cui mi sento.
− I migliori giudici delle mie emozioni sono le altre persone.
− Le emozioni dolorose non sono realmente importanti e andrebbero ignorate.
… e tanto altro …
E qual è il problema nell’avere questo tipo di credenze relative alle nostre emozioni?
Dai risultati preliminari di alcuni studi è emerso che i miti sulle emozioni promuovano l’uso di strategie non-funzionali di regolazione delle stesse, come tentare di allontanarle, evitarle, sopprimerle, scappare da esse attraverso abuso di sostanze, farmaci, cibo, rimuginio, evitamento di situazioni, persone, esperienze, etc.
E ancora … qual è il problema nell’utilizzare queste strategie?
Ognuno di noi può trovare la risposta a questa domanda guardando alla propria esperienza concreta: queste strategie ci hanno permesso, a lungo termine, di fare quello che volevamo fare? Di sentirci come volevamo sentirci? Oppure hanno funzionato per qualche minuto, ora, giorno e poi la situazione è ritornata come prima (se non peggio)? Quanto ci sono costate in termini di salute, vitalità, energia, relazioni, lavoro, piacere, soldi, opportunità perse, tempo, dolore?
Alla luce di questo risulta importante ridefinire i nostri miti emozioni e imparare a gestirle in modo più funzionale, cioè utile ai nostri scopi.

Continua …

Come sopravvivere ai capricci dei nostri figli  

 

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I capricci dei bambini per un genitore, sono una delle prime esperienze di contrasto con i loro figli, infatti già intorno all’anno i bambini mettono in atto comportamenti che si possono definire capricciosi.

Come in ogni fase in cui il contrasto tra genitori e figli si fa più duro, non dobbiamo spaventarci, ma affrontare il limite che nostro figlio ci sta chiedendo di definire e rispondere a questo strano modo di esprimersi.

Non tutte le volte che si oppongono a noi sono capricciosi, è importante dare una definizione che dia l’occasione a noi genitori di capire meglio come intervenire.

Come ogni cosa per conoscerla è bene:

 Definirla, capire da dove viene, quale finalità ha e come intervenire.

 Definizione: IL CAPRICCIOà Se un comportamento si verifica con una certa frequenza e in modo prevedibile (ad esempio in certe situazioni, ma non in altre), allora tale comportamento non può essere definito casuale, sembra piuttosto avere uno scopo.

 Gli scopi dei capricci si possono racchiudere in tre categorie generali:

  • ricerca di attenzione
  • fuga da un compito frustrante
  • ricerca di gratificazione immediata

 Se un comportamento inadeguato è occasionale, sarebbe meglio cercare di comprendere cosa l’ha generato (il bambino è stanco, ha litigato con il fratello o con un compagno del nido, ecc…).

 Ma da dove vengono i capricci dei nostri figli?

Abbiamo visto che sono mossi da uno scopo e sono frutto dell’apprendimento della strategia più utile per perseguirlo.

I bambini sono piccoli scienziati che sperimentano per prove ed errori, cosa funziona e cosa no …

Es. un bambino di 2 anni vuole ottenere l’attenzione della mamma che sta al computer:

primo tentativo: “mamma!” “sì arrivo” continuando a guardare il monitor

secondo tentativo:“mamma!” la mamma risponde un po’ innervosita “si tesoro un attimo e sono da te!”

terzo tentativo: il bambino butta per terra tutti i suoi giochi urlando e la mamma corre in camera per sgridarlo.

Il bambino ha imparato che se urla e tira i giochi, l’attenzione della mamma arriverà prima, anche se si tratta di un’attenzione in negativo, è pur sempre un momento di attenzione.

 Come intervenire?

Come sempre, non c’è una ricetta magica che funziona sempre e con ogni bambino, ma possiamo imparare a farci attenti in termini preventivi ai loro comportamenti adeguati e magari rispondere alle loro richieste adeguate (nei limiti del possibile) come nel primo tentativo di richiesta d’attenzione del bambino.

  • Il primo passo è identificare la versione positiva del comportamento indesiderato. Se il comportamento indesiderato è urlare la versione positiva sarà parlare con un tono di voce adeguato alla situazione
  • Una volta individuati i comportamenti nella versione positiva, il secondo passo sarà prestare maggiore attenzione ogni volta che si verificano e,
  • il terzo passo sarà sottolinearli a nostro/a figlio/a con un “bravo sono felice che hai fatto questo!” Non il contrario come siamo portati solitamente a fare.

Inoltre sarebbe opportuno prestare attenzione ai comportamenti adeguati e ignorare quelli inadeguati

Es. il bambino seduto composto a tavola butta per terra il bicchiere con tutta l’acqua facendo un lago per terra e bagnandosi le scarpine, noi possiamo rispondere “come sei seduto per bene bravo, vuoi un la carne?” il bambino imparerà che la sua richiesta di attenzione è stata raggiunta grazie al fatto di stare seduto composto e non per il bicchiere.

Sul momento l’intervento più efficace è il costo della rispostaà se ti è caduto il bicchiere non lo raccoglie la mamma e quando avrai sete dovrai aspettare la fine del pranzo per bere, o dovrai raccoglierlo tu.

Il concetto è diverso dalla punizione perché questo tipo di intervento riguarda sempre la conseguenza dell’azione che il bambino ha messo in atto, quindi in questo caso l’obiettivo è quello di insegnare al bambino cosa accade (di spiacevole per lui) a causa di un comportamento inadeguato. La punizione spesso riguarda situazioni che non hanno a che fare con il comportamento (hai messo in disordine la camera ora non vai più a trovare il tuo amichetto! La conseguenza dell’azione sarebbe invece rimettere in ordine, anche attraverso il nostro aiuto, senza pero sostituirci a lui).

A volte i bambini sono così presi dal loro capriccio, da perdere il contatto con noi e con loro stessi, urlano e si disperano e qualsiasi cosa diciamo o facciamo sembra non essere recepita da nostro figlio; in questi casi il nostro obiettivo è calmarli, attraverso il contatto fisico, con un abbraccio, parole gentili e sguardo rassicurante, per insegnare loro che in una situazione di forte disconnessione si può trovare il modo di tornare in sé, una volta calmati possiamo intervenire in modo educativo sul capriccio.

Se durante il momento di disconnessione è presente l’altro genitore, può provare lui/lei a calmare il bambino, senza sconfermare il motivo del contrasto, ma con l’unico intento di permettere al piccolo di ritornare in sé, quindi, come descritto sopra, attraverso il contatto fisico e un atteggiamento rassicurante, il genitore può dire al bambino “vieni qui tesoro calmati tra le mie braccia, la mamma ha ragione ad averti rimproverato, ma abbracciami stretto così ti calmi..”, in questo modo il bambino viene accolto nella sua difficoltà a calmarsi, ma non nel comportamento indesiderato.

È molto importante ricordarci il nostro ruolo di guida, anche quando i loro capricci ci irritano o ci sembra che stiano soffrendo e quindi sembra necessario assecondare la loro richiesta. Il capriccio, se contrastato permette al bambino di sentirsi meglio, più sicuro e fiducioso nella relazione con i suoi genitori o con le figure accudenti di riferimento.

Attenzione però, le prime volte che li contrasteremo, da bravi piccoli scienziati, non lasceranno facilmente la strada vecchia per la nuova, ha funzionato così bene che terranno duro, ma anche noi saremo fermi nell’indicargli la strada migliore per tutti.

Se tutto questo non funziona e la relazione con il bambino sembra essere a rischio un confronto con un esperto può risultare utile per comprendere la situazione specifica e, cambiando qualcosa, trovare un modo per uscirne.

“Non lo butto”! Il Disturbo d’Accumulo Compulsivo

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“La fantasia abbellisce gli oggetti cingendoli e quasi irraggiandoli d’immagini care. Nell’oggetto amiamo quel che vi mettiamo di noi”

Luigi Pirandello.

A cura della Dott.ssa Giovanna Mengoli

La maggior parte di noi ha accumulato negli anni degli oggetti a cui tiene particolarmente e che conserva gelosamente. Piccoli pezzi della memoria da cui è difficile separarsi, soprattutto per il loro valore affettivo e per la capacità di rievocare in noi determinate emozioni. La penna multicolore con cui scrivevamo alle scuole elementari, quaderni, diari, biglietti del cinema. Ogni oggetto è gelosamente custodito, alle volte riposto in delle “scatole del tempo” un po’ come faceva Warhol con le sue time capsule. Nate per caso, nel 1974, quando – in seguito a un trasloco – Warhol decise di mettere in grandi scatole da pacchi tutto ciò che aveva sparso per la casa: sulla scrivania, sul pavimento, negli armadi; biglietti di concerti, disegni, scarpe, articoli di giornale.

Da quell’anno Warhol non hai mai smesso di memorizzare tracce della sua vita nelle sue Time Capsule. Ha sempre tenuto una scatola accanto alla sua scrivania, per potervi buttare dentro e racchiudere le tracce del suo quotidiano. In tutta la sua vita, Warhol realizzò più di 600 Capsule del Tempo, dentro le quali oltre 500.000 oggetti furono immagazzinati per essere trasformati in indimenticabili frammenti di tempo.

Eppure a nessuno di noi sarebbe venuto in mente Andy Warhol pensando ad una persona che soffre di Disturbo di Accumulo (DA), piuttosto ci sarebbe balzato alla memoria una persona anziana, isolata, non particolarmente brillante e in condizioni economiche non agiate.

Probabilmente, i nostri ricordi sono condizionati da stereotipi derivanti da trasmissioni televisive quali l’americana “Sepolti in Casa”.

In realtà, il disturbo da accumulo è un disturbo molto più complesso dello stereotipo a cui siamo abituati, più diffuso di quanto si pensi e che non riguarda assolutamente solo persone “ai margini”, ma al contrario anche soggetti dotati di un’intelligenza brillante e non socialmente isolati.

I pazienti con DA hanno con gli oggetti che accumulano un rapporto non molto diverso da quello che la maggior parte degli individui ha con i propri oggetti personali. Chi di noi non ha qualche oggetto che ritiene significativo e importante, benché magari non abbia nessun valore reale se non “la sua storia”? Allora cosa distingue un soggetto affetto da disturbo da accumulo da, ad esempio, un semplice collezionista?Cosa è esattamente il Disturbo da Accumulo?

Ad oggi, il Disturbo da Accumulo, o disposofobia, è un disturbo poco studiato e con tanti aspetti da definire: sia dal punto di vista diagnostico,dove non c’è ancora un grande accordo tra gli esperti; sia dal punto di vista clinico dove molto c’è da chiarire e comprendere sul funzionamento e i meccanismi psicologici che determinano il disturbo.

Solo nel 2013, con la pubblicazione del manuale diagnostico DSM-V, la bibbia di psichiatri e psicologi per la diagnosi, gli viene finalmente riconosciuto lo status di disturbo autonomo, con il nome di HoardingDisorder, inserito tra i disturbi “correlati” al Disturbo Ossessivo – Compulsivo.

Tre innanzitutto sono i segnali di base per distinguere tale disturbo:

1.      La persona colleziona e conserva un gran numero di articoli persino cose che appaiono inutili o di scarso valore per la maggioranza delle persone e possono spaziare dalla collezione di oggetti di valore, all’accumulo di spazzatura, fino all’accumulo di animali. Molto frequente è l’accumulo di libri e giornali o, comunque, di materiali che contengono informazioni e possono aumentare le conoscenze.

2.      Queste cose ingombrano spazi vitali e impediscono alla persona di usare le stanze così come aveva progettato.

3.      Questi oggetti causano difficoltà o problemi nelle attività quotidiane.

Non è collezionismo: Nell’accumulo compulsivo, infatti, le persone raramente cercano di mostrare le loro cose che sono tenute di solito in disordine, mentre nel collezionismo le persone di solito mostrano con orgoglio le loro collezioni che sono tenute in modo ordinato e organizzato.

Anche la severità può naturalmente variare molto: si va da persone che hanno la casa completamente invasa da oggetti a persone che, anche grazie a maggiori possibilità economiche, possono affittare magazzini in cui riporre gli oggetti. Infine, semplicemente situazioni di minore gravità in cui, per esempio, l’accumulo riguarda selettivamente solo alcuni oggetti.

Per quanto riguarda la diffusione, si stima che tra il 2 e il 5% della popolazione presenti un problema di accumulo che gli causa disagio e/o problemi che interferiscono con il normale svolgimento della propria vita. In realtà, è probabile che si tratti di un fenomeno sottostimato visto che raramente chi accumula chiede aiuto e riconosce il disturbo vivendo il problema in una dimensione di segretezza.

Quali sono le motivazioni dell’accumulo nel DA?

Visto dall’esterno, il comportamento del paziente con DA appare completamente incomprensibile: si tratta di individui che rovinano la loro vita, spesso la propria situazione economica, quasi inevitabilmente le relazioni con i propri cari  per raccogliere, conservare, ammassare oggetti di solito inutili, di nessun valore e con i quali dichiarano, nella maggior parte dei casi, di non avere nessun legame particolare

Tuttavia, in senso evolutivo, in effetti, l’accumulo è un comportamento funzionale alla sopravvivenza: si mette da parte per tempi di magra, si è previdenti. Il problema è che gli accumulatori patologici perdono completamente di vista il rapporto costi – benefici: per esempio, si rende inutilizzabile parte della casa, per conservare una grande quantità di oggetti tra i quali c’è, forse qualcosa che potrebbe essere utile o di valore.

Allora viene da chiedersi: Come mai si arriva a tanto? Come mai si perde completamente di vista il rapporto costi-benefici del conservare o acquisire un oggetto?

Osservando un soggetto affetto da DA si ha l’impressione che abbia un problema nel processo di elaborazione delle informazioni: decidere quali oggetti tenere o buttare e come organizzarli implica capacità di categorizzazione, di memorizzazione e una certa quantità di attenzione, oltre che fiducia in queste capacità. Questa è l’ipotesi che fanno alcuni studiosi come spiegazione del disturbo.

In effetti, gli accumulatori provano a buttare o organizzare gli oggetti, ma non risultano capaci spendendo, spesso,  gran parte della giornata in questo, per cui l’opera di selezione finale spesso si risolve in un semplice spostamento di oggetti, in nuovi mucchi.

Una cosa interessante è che in realtà le stesse capacità sono integre nelle persone con DA quando devono organizzare oggetti non propri.

Un altro elemento interessante è quello messo in luce da Frost e Steketeenel loro interessante libro “Tengo tutto” (Ed. Erikson, 2013), in cui evidenziano che gli oggetti per la persona con DA rappresentano potenzialmente un’opportunità, ovvero sono oggetti “non si sa mai” potrebbero in un lontano futuro servire, potrebbero acquistare valore.

Inoltre, gli accumulatori, spesso, attribuiscono agli oggetti una sorta di valore magico. In alcuni casi, il rapporto è quasi “feticista”, non molto diversamente da quanto accade per le persone che sono disposte a spendere cifre impressionanti per acquistare nelle aste oggetti inutili appartenuti a personaggi come Marilyn Monroe o Jimi Hendrix.

È un disturbo che si cura?

Esistono sia trattamenti farmacologici che psicologici per la cura del disturbo da accumulo, anche se gli studi di efficacia sono minori che per i disturbi più studiati, come altri disturbi d’ansia o dell’umore per esempio.

Tra l’altro molto spesso le persone con accumulo hanno una consapevolezza molto bassa del disturbo o se ne vergognano per cui chiedono poco o rifiutano apertamente il trattamento.

Tra i trattamenti applicati in questo tipo di disturbo e per i quali esistono dati di efficacia c’è la terapia comportamentale basata sull’Esposizione con Prevenzione della Risposta (ERP): consiste in sostanza nel far buttare velocemente una certa parte degli oggetti, bloccando controlli sugli stessi.

La terapia più usata, però, è quella cognitivo – comportamentale che coniuga l’ERP con altre componenti della terapia cognitiva.

Le componenti centrali di questo trattamento sono:interventi focalizzati sulla motivazione al trattamento; addestramento a capacità come la presa di decisioni o la risoluzione di problemi,con lo scopo di addestrare i pazienti ad imparare a sopportare sempre di più  la  sgradevole sensazione di “buttare via qualcosa di importante”.

É stato visto sulla base di alcuni studi di efficacia, condotti daTolin et al. (2008),  che circa il 70% dei pazienti che si sottopone al trattamento presenta un miglioramento sintomatologico.

IL BULLISMO COS’È, COSA NON È, QUALI SEGNALI OSSERVARE E COSA FARE

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A cura della Dott.ssa Cristina Jacchia

Molti sono gli episodi di bullismo che arrivano dai mass media ogni giorno, a volte diventano fatti di cronaca e si rimane allibiti, impauriti, come se si trattasse di qualcosa di incomprensibile e di lontano da noi e dai nostri figli.. potremmo pensare che tanto tutto questo non accadrà mai a mio figlio.. oppure se l’ansia sale potremmo pensare che cose del genere possano accadere proprio nella scuola del mio bambino … pensieri ed emozioni come questi nascono dalla mancanza di conoscenza del fenomeno del bullismo, ma sempre più spesso tale fenomeno può entrare a fare parte delle nostre vite (un figlio, un nipote, un amico, un alunno), per questo motivo vale la pena conoscerlo per poter affrontare e gestire al meglio l’eventualità di imbattersi nel fenomeno, senza rischiare di sentirsi impotenti e non saper cosa fare o peggio di sfogare la frustrazione derivata in atti aggressivi insensati o poco utili.

COSA è IL BULLISMO

Il bullismo viene definito come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona – o da un gruppo di persone – più potente nei confronti di un’altra persona percepita come più debole.

LE CARATTERISTICHE distintive del bullismo sono:

  • L’intenzionalità: gli atti di bullismo sono intenzionali, lo scopo è di sottomettere l’altra persona offendendola e e con lo scopo di ledere l’altra persona.
  • La persistenza nel tempo: gli atti di bullismo non sono occasionali, ma perdurano nel tempo per settimane, mesi e a volte anche anni, spesso sono anche sistematici, soliti posti e soliti momenti della giornata.
  • La relazione asimmetrica: la relazione tra bullo e vittima non è equilibrata né da un punto di vista fisico, né da un punto di vista psicologico con evidente diseguaglianza di potere. All’interno della relazione uno vince sempre, l’altro perde sempre.

EVOLUZIONE NEL TEMPO DEL FENOMENO ED ETA’

La fascia d’età in cui gli atti di bullismo si manifestano più frequentemente va dai 7-8 anni ai 14-15 anni. Erroneamente da quanto molte persone credono, il fenomeno del bullismo è maggiormente presente nelle scuole primarie e nei primi anni delle scuole secondarie di primo grado. Gli atti di bullismo infatti si riducono progressivamente con l’aumentare dell’età, soprattutto quei comportamenti caratterizzati dalla forza fisica, purtroppo però alcuni bulli trasformano i loro comportamenti in atti maggiormente pericolosi, non più ascrivibili al fenomeno del bullismo, ma più propriamente a comportamenti antisociali e illegali.

Gli attori del bullismo

Di fondamentale importanza è la natura relazionale del fenomeno del bullismo, si pensa spesso erroneamente che gli attori del bullismo siano il bullo e la vittima e che la colpa sia unicamente del bullo. La realtà è ben diversa, infatti ci sono altri attori che contribuiscono al mantenimento del fenomeno:

  • Bullo è la persona che compie atti di bullismo. Lo fa perché ritiene di potersi affermare solo mostrando il suo potere sottomettendo qualcuno, non conosce altre modalità relazionali più efficaci.
  • Vittima è la persona che subisce gli atti di bullismo. Spesso la vittima, a causa del bisogno di accettazione, cerca il bullo per sperare di essere visto e riconosciuto da lui, così forte ai suoi occhi, con la speranza che potrà smettere di trattarlo male per inserirlo nella sua cerchia di amici, a volte la vittima sceglie di essere trattato male pur di restare nelle sue attenzioni
  • Gregari  sono coloro che supportano e spalleggiano il bullo compiendo atti di bullismo a loro volta forti del bullo. Con questo comportamento di supporto i gregari rinforzano il comportamento del bullo facendolo sentire ancora più importante e validando i suoi atti come leciti.
  • Spettatori sono tutti coloro che assistono all’atto di bullismo senza intervenire né a favore né a sfavore. Gli spettatori non intervenendo automaticamente rendono lecito quel comportamento.
  • Difensori  sono coloro che cercano di difendere la vittima consolandola o cercando di interrompere le prepotenze

Escludendo i difensori, tutti gli altri attori contribuiscono a mantenere attivo il circolo vizioso degli atti di bullismo.

LE CONSEGUENZE A BREVE E LUNGO TERMINE NEI BULLI E NELLE VITTIME

IL BULLO

Conseguenze a breve termineà Basso rendimento scolastico • Disturbi della condotta per incapacità di rispettare le regole • Difficoltà relazionali

Conseguenze a lungo termineà Ripetute bocciature e abbandono scolastico • Comportamenti devianti e antisociali: crimini, furti, atti di vandalismo,abuso di sostanze • Violenza in famiglia e aggressività sul lavoro

LA VITTIMA

Conseguenze a breve termineà Sintomi fisici: mal di pancia, mal di stomaco, mal di testa (soprattutto alla mattina prima di andare a scuola) • Sintomi psicologici: disturbi del sonno, incubi, attacchi d’ansia • Problemi di concentrazione e di apprendimento, calo del rendimento scolastico

  • Riluttanza nell’andare a scuola, disinvestimento nelle attività scolastiche • Svalutazione della propria identità, scarsa autostima

Conseguenze a lungo termineà • Psicopatologie:- Depressione- Comportamenti autodistruttivi/Auto lesivi • Abbandono scolastico • A livello personale:insicurezza, ansia, bassa autostima, problemi nell’adattamento socio-affettivo• A livello sociale: ritiro, solitudine, relazioni povere

A ben vedere il bullo e la vittima hanno in comune la difficoltà nelle relazioni sociali, infatti nessuno dei due ha sviluppato sufficienti abilità sociali che gli permettano di sentirsi sicuri senza prevaricare (per il bullo) e senza farsi schiacciare (per quanto riguarda la vittima).

Entrambi i protagonisti del fenomeno del bullismo hanno bisogno di essere aiutati a trovare modalità migliori per stare con gli altri, siano essi coetanei o adulti a cui rivolgersi per chiedere aiuto.

Abilità come: saper dire di no, riconoscere ciò che è bene da ciò che è male, sapersi autoregolare o  avere la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, saper risolvere problemi, saper negoziare, saper chiedere aiuto, saper empatizzare, sapersi relazionare nel rispetto reciproco, affermare i propri bisogni nel rispetto di quelli degli altri, saper collaborare e avere comportamenti pro sociali… sono solo alcune tra le tante abilità che sia i bulli, sia le vittime, (ma vale anche per i gregari e gli spettatori) hanno bisogno di sviluppare per crescere  e affrontare la vita in modo equilibrato e rivolto al benessere della loro persona e degli altri.

GLI ATTI E I LUOGHI DEL BULLISMO

  • Bullismo diretto fisicoà le azioni sono per lo più di tipo fisico, prendere a calci, spinte, prendere e rovinare oggetti, tirare i capelli … ecc
  • Bullismo diretto verbaleàminacciare, insultare, esprimere pensieri razzisti, estorcere denaro, prendere in giro in modo in modo irrispettoso e non divertente per la vittima
  • Bullismo indirettoàquesto tipo di bullismo è più di tipo psicologico, è meno evidente, ma non per questo meno lesivo nei confronti della vittima … si tratta di comportamenti quali l’esclusione dal gruppo dei coetanei, l’isolamento, l’uso ripetuto di smorfie e gesti volgari, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul conto della vittima, il danneggiamento dei rapporti di amicizia.
  • I luoghi: I contesti in cui gli episodi di bullismo avvengono con maggior frequenza sono gli ambienti scolastici: le aule, i corridoi, il cortile, i bagni e in genere i luoghi isolati o poco sorvegliati, come per esempio gli spogliatoi della palestra o i laboratori. Generalmente i bulli e le vittime fanno parte della stessa classe, per cui accade frequentemente che questa diventi il luogo privilegiato in cui si manifestano le prevaricazioni. Azioni bullistiche, però, possono essere perpetrate anche durante il tragitto casa-scuola e viceversa.

COSA NON E’ BULLISMO

Il bullismo è una tra le possibili manifestazioni di aggressività messe in atto dai bambini e dagli adolescenti.

Sebbene non sia sempre semplice riconoscere ad un primo sguardo le differenti tipologie di comportamenti aggressivi, è però possibile distinguere quelli più specificamente riconducibili alla categoria “bullismo” da quelli che, invece, non entrano a far parte di questo fenomeno.

Una prima categoria di comportamenti non classificabili come bullismo è quella degli atti particolarmente gravi, che più si avvicinano ad un vero e proprio reato. Attaccare un coetaneo con coltellini o altri oggetti pericolosi, fare minacce pesanti, procurare ferite fisiche gravi, commettere furti di oggetti molto costosi, compiere molestie o abusi sessuali sono condotte che rientrano nella categoria dei comportamenti antisociali e devianti e non sono in alcun modo definibili come “bullismo”.

Allo stesso modo, i comportamenti cosiddetti “quasi aggressivi”, che spesso si verificano tra coetanei, non costituiscono forme di bullismo.

I giochi turbolenti e le “lotte”, particolarmente diffusi tra i maschi, o la presa in giro “per gioco” non sono definibili come bullismo in quanto implicano una simmetria della relazione, cioè una parità di potere e di forza tra i due soggetti implicati e una alternanza dei ruoli prevaricatore/prevaricato. (tratto da “quaderno sul bullismo” di Telefono Azzurro- www.telefonoazzurro.it ).

Ricordiamo inoltre che in generale, un fatto sporadico e occasionale, non ripetuto nel tempo, non intenzionale, non asimmetrico a livello relazionale, per quanto spiacevole non è ascrivibile ad un atto di bullismo.

COME RICONOSCERE I SEGNI DEL BULLISMO NEI NOSTRI FIGLI

È importante osservare i comportamenti dei nostri figli, difficilmente verranno da noi a dirci “ciao mamma oggi ho compiuto atti di bullismo” “sai papà oggi mi hanno minacciato” “oggi un mio compagno è stato messo in un angolo e io non ho fatto niente”

Molti sono i motivi che portano i nostri figli a non comunicare questi avvenimenti: paura, vergogna, pensare che sia normale … è per questo che è nostro compito osservare senza paura o preoccupazione eccessiva alcuni segni che vanno comunque verificati attraverso un confronto con il bambino/ragazzo e/o con la scuola in un’ottica di aiuto e comprensione per essere una squadra che collaborando sarà pronta ad arginare il problema.

Di seguito sono elencati alcuni segnali che possono essere campanelli d’allarme, ma che vanno verificati e accertati in una dimensione di dialogo e di ascolto non giudicante che permetta il figlio e/o gli insegnanti o i compagni di classe di sentirsi capiti e incoraggiati a parlare e ad aver un confronto utile e produttivo per tutti volto a trovare una soluzione e non con l’obiettivo di accusare qualcuno per punirlo.

Eventuali segni o campanelli d’allarme che mi possono far intuire se mio figlio è una vittima:

  • Torna da scuola con vestiti strappati o sporchi e con materiale scolastico rovinato
  • Non frequenta amici nel tempo libero
  • Fa brutti sogni e/o dorme male
  • L’interesse per la scuola e il rendimento diminuiscono
  • Ha frequenti mal di pancia o altri tipi di malesseri che lo portano a non frequentare la scuola
  • Ha frequenti sbalzi d’umore si isola, piange..
  • Ha ferite o lividi e tagli a cui non sa dare una spiegazione valida
  • Chiede o prende denaro di nascosto (per assecondare i bulli)

Eventuali segni o campanelli d’allarme che mi possono far intuire che mio figlio è bullo:

  • prende in giro ripetutamente e in modo pesante
  • può essere oppositivo anche nei confronti dei genitori o di eventuali fratelli
  • fatica a rispettare le regole anche in casa
  • rimprovera
  • intimidisce
  • minaccia
  • tira calci, pugni, spinge
  • danneggia cose …

COSA FARE

  1. Prendere consapevolezza del problema “bullismo”: innanzitutto prestare attenzione ad eventuali segnali della presenza del bullismo;
  2. Non minimizzare il problema: far capire al figlio che è importante prendere in seria considerazione il problema che riporta, creando un clima di ascolto attivo e di fiducia;
  3. Favorire il dialogo: evitare di assumere un atteggiamento colpevolizzante e punitivo, ma al contrario potenziare il dialogo e la comunicazione, promuovendo la cultura dell’ascolto;
  4. Non arroccarsi su posizioni estreme nei confronti del proprio figlio (di accusa o di difesa): avere una visione reale del problema, evitando di schierarsi dalla parte del bullo o della vittima; prima di intervenire, capire a fondo il problema e le motivazioni che hanno portato ciascun attore coinvolto a comportarsi in un determinato modo;
  5. Valorizzare il dialogo scuola famiglia: stare costantemente in contatto con il personale della scuola (insegnanti, dirigenti e personale non docente) per cercare di definire il problema, ascoltando anche quello che hanno da dire gli operatori scolastici;
  6. Prestare attenzione al vissuto emotivo del proprio figlio: cercare di far emergere le emozioni, le paure e i sentimenti del bambino rispetto all’accaduto. Provare a mettersi nei panni del proprio figlio, per cercare di capire meglio che cosa stia vivendo;
  7. Invitare il proprio figlio a chiedere aiuto: far capire al bambino che, se si dovesse trovare nella posizione di vittima di azioni di prepotenza, è importante chiedere aiuto ad uno dei suoi adulti di riferimento. Spiegare che questo non è un atto di debolezza, ma è un modo coraggioso per smascherare il bullo e farlo uscire allo scoperto;
  8. Trovare una soluzione al problema insieme al proprio figlio:coinvolgere il bambino in modo

attivo nella ricerca di strategie adeguate ed efficaci per la risoluzione del problema;

  1. Confrontarsi con altri genitori: è importante condividere paure e preoccupazioni rispetto all’accaduto per scoprire, magari, di non essere gli unici coinvolti nel problema;
  2. Potenziare l’autostima del proprio figlio: lavorare per costruire la fiducia del bambino in se stesso ed incoraggiarlo a sperimentarsi nelle attività (anche extrascolastiche) in cui riesce bene;
  3. Lavorare verso l’autonomia del proprio figlio: evitare di avere un atteggiamento iperprotettivo, ma al contrario insegnare al bambino ad essere il più possibile autonomo, perché proprio una stretta dipendenza dai genitori può essere un fattore di rischio affinché il bambino sia preso di mira da compagni “più forti”;
  4. Aiutare il proprio figlio a prendere consapevolezza dei suoi atteggiamenti: insegnargli a riconoscere eventuali comportamenti che possono irritare o infastidire gli altri e riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Cogliere l’occasione per suggerire possibili condotte alternative;
  5. Favorire momenti di socializzazione positiva: creare momenti, al di fuori del contesto scolastico, in cui il bambino possa vivere momenti di socializzazione con i propri compagni, magari condividendo gli stessi interessi;
  6. Far intraprendere ai bambini attività extrascolastiche: impegnarsi per esempio in attività sportive aiuta ad incanalare l’aggressività in modo positivo e favorisce la costruzione di nuove relazioni;
  7. Ridurre il senso di colpa: far sì che i bambini non si sentano colpevoli nel caso in cui siano vittime di prepotenza, ricordando loro che è sempre possibile trovare una soluzione;
  8. Rivolgersi ad esperti: qualora la famiglia dovesse rendersi conto di non avere strumenti adeguati per gestire la situazione, chiedere

WORKSHOP “La Terapia Cognitivo-Comportamentale del Disturbo di Panico e Agorafobia: un approccio Evidence-Based”

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Lo studio Coradeschi organizza il Corso di Formazione-Workshop :

“La Terapia Cognitivo-Comportamentale del Distrubo di Panico e Agorafobia: 

Un protocollo Evidence-Based”

Il corso verrà tenuto dal Dr. Davide Coradeschi, Psicologo-Psicoterapeuta e si terrà Sabato 4 Aprile dalle ore 9:30 alle ore 17:30 ad Arezzo presso lo studio Coradeschi, Via XXV Aprile, 20

Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito dell’ Ordine degli Psicologi della Toscana nella sezione Workshop oppure inviare una mail a info@studiocoradeschi.org

Il corso è rivolto a Psicologi, Psicoterapeuti, Medici Specializzati

 

Il timore di fare l’amore: conoscere, ri-conoscere e affrontare il Vaginismo

modigliani_nudosuldivanoA cura della Dott.ssa Elena Mannelli

Il vaginismo è un disturbo sessuale di origine psicologico-emotiva che si manifesta a livello fisico attraverso una contrazione involontaria dei muscoli esterni della vagina tale da rendere impossibile il rapporto sessuale.

Tale fenomeno psicosomatico si verifica specificamente in risposta ad approcci sessuali finalizzati alla penetrazione ma può anche essere presente in altre pratiche erotiche e in occasione della visita ginecologica. A tale condizione può associarsi un’intensa esperienza di dolore sperimentata nei tentativi di penetrazione così come un’anticipazione fobica di tale dolore che scoraggia sul nascere tali approcci.

E’ molto importante distinguere situazioni nelle quali la donna non riesce ad avere rapporti perché sente male (dispareunia) da quelle nelle quali non riesce perché ha paura di poter sentire male o di stare male interiormente (vaginismo). Una accurata visita ginecologica consente agevolmente di distinguere queste due situazioni ed effettuare una corretta diagnosi differenziale.

Esistono possibili sovrapposizioni e può capitare che una donna che sente dolore realmente possa innescare tutte le contratture muscolari difensive tipiche del vaginismo.

Nel vaginismo, la contrazione può variare da una forma lieve, che induce una certa tensione e disagio, fino a forme gravi, che impediscono la penetrazione in una scala che va da 0 a 5 secondo la classificazione di Lamont e Pacik.

I muscoli che si contraggono in questa condizione sono normalmente sotto il diretto controllo della volontà e la donna  può  contrarli o rilassarli a piacimento.  Quando c’è un vaginismo questo controllo non è attuabile e i fasci muscolari sviluppano, al tentativo o al solo pensiero di un rapporto sessuale, uno spasmo autonomo; la tensione che ne consegue è così intensa da far sì che la penetrazione sia impossibile.

Spesso la fobia della penetrazione è una reazione secondaria al vaginismo primario, ma talvolta può precederlo ed essere una reazione primaria.

Una donna può soffrire di vaginismo permanente se tale disfunzione è presente fin dall’inizio dell’attività sessuale; se viceversa il disturbo si è sviluppato dopo un periodo di funzionamento normale, il vaginismo è acquisito. Inoltre, tale disfunzione può essere situazionale (se si verifica solo con un certo tipo di stimolazione, in certe situazioni e con certi partner) o generalizzata (se si verifica sempre indipendentemente dalla situazione, dal tipo di stimolazione e dal partner). Descrivere, però, il vaginismo come contrattura dei muscoli perivaginale è riduttivo perchè nella maggior parte dei casi non è solo questa parte ad essere coinvolta nella reazione di contrattura involontaria. La donna reagisce spesso con tutto il corpo, stringendo le gambe, spostando il bacino, inarcando la schiena, allontanando con le braccia il proprio compagne e in tali reazioni vengono coinvolte numerose fasce muscolari.

Le cause non sono ben chiare e sono multifattoriali e molteplici, quali un’educazione rigidamente religiosa, l’impotenza del partner, le conseguenze psicologiche di un abuso, problematiche di coppia, credenze sul sesso ecc.. In generale, qualunque stimolo negativo associato all’atto sessuale o alla penetrazione vaginale che possa essere responsabile dell’acquisizione di questa reazione, a prescindere dal fatto che la contingenza negativa sia reale o immaginaria, e a prescindere dal fatto che la paziente ne sia o meno consapevole.

Il vaginismo ha un impatto importante nella psicologia della donna e di conseguenza nella relazione di coppia. Spesso infatti lei può manifestare sentimenti ed emozioni negative associate al pensiero di essere “anormale” o diversa rispetto alle altre donne, oppure di non poter avere figli come desiderato o ancora possono emergere vissuti di preoccupazione e colpa nei confronti del partner.

ll vaginismo è un disturbo piuttosto diffuso, anche se spesso tenuto segreto per una forma di imbarazzo e riservatezza. Il trattamento del vaginismo è la terapia psicosessuologica, in grado di risolvere in modo definitivo questo tipo di disturbo. Come ampiamente sottolineato inanzittutto un’adeguata diagnosi a carico degli specialisti è prioritaria, sia da un punto di vista ginecologico che psicologico.

L’approccio sessuologico prevede, oltre ad un colloquio psicoterapeutico, anche un training specifico con tecniche di rilassamento e l’utilizzo di esperienze terapeutiche da esercitare nel privato. Molto importante è anche il coinvolgimento del partner in alcune fasi della terapia, nel caso ovviamente di coppie stabili. Il trattamento sarà finalizzato alla rimozione delle cause personali, di coppia e psicosessuali che hanno favorito l’insorgere del disturbo e l’eventuale cura della cause biologiche con l’ausilio di una terapia finalizzata a ridurre la tensione muscolare durante la penetrazione.

Il trattamento cognitivo comportamentale prevede una

  1. Fase di Psicoeducazione – conoscenza dell’anatomia sessuale e del ciclo di risposta sessuale (fasi del funzionamento erotico),  in funzione di un miglioramento della consapevolezza del proprio corpo di una comprensione dei fattori fisiologici e psicologici coinvolti nel rapporto sessuale.
  2. Training di rilassamento
  3. Terapia cognitiva – analisi e ristrutturazione cognitiva dei fattori psico-sociali che hanno contribuito all’insorgenza e al mantenimento del disturbo
  4. Tecniche comportamentali – esercizi di focalizzazione sensoriale da soli o in coppia
  5. Analisi delle dinamiche di coppia e delle modalità di gestione del rapporto sessuale da parte del partner
  6. Tecniche di controllo muscolare per migliorare il controllo volontario – ad esempio gli esercizi di Kegel per tonificare e rafforzare i muscoli che formano il pavimento pelvico: infatti, la salute e il benessere di questi muscoli giocano un ruolo vitale nell’eccitazione sessuale e nell’orgasmo, come pure in altre funzioni corporee

EMDR: Un nuovo metodo per il superamento dei traumi

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Un’esperienza emozionale potrebbe essere così forte da lasciare una cicatrice nel tessuto celebrale”.

William James, 1890.

A cura della dott.ssa Giovanna Mengoli

EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è un trattamento psicoterapeutico originariamente nato per desensibilizzare efficacemente i sintomi disturbanti legati ai ricordi traumatici. Nell’Eye Movement Desensitization and Reprocessing grazie ai movimenti oculari si riducono gli effetti dei sintomi (desensibilizzazione) e si riattiva il fisiologico processo di elaborazione delle informazioni (riprocessamento).

L’efficacia del trattamento EMDR è stata riconosciuta in ambito scientifico ed accademico fino al punto da essere dichiarato uno dei metodi evidence – based per la terapia del PTSD (Disturbo Post – Traumatico da Stress) e quindi del trauma.

La focalizzazione del metodo EMDR è sul ricordo dell’esperienza o esperienze traumatiche che hanno contribuito a sviluppare la patologia o il disagio che presenta il paziente contribuendo a trattare il ricordo terapeuticamente.

Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. I risultati di questi lavori hanno portato ad aprire una nuova dimensione nella psicoterapia. L’efficacia dell‘EMDR è stata dimostrata in tutti i tipi di trauma, sia per il Disturbo Post Traumatico da Stress che per i traumi di minore entità .

Nel 1995 il Dipartimento di Psicologia Clinica dell’American Psychological Association ha condotto una ricerca per definire il grado di efficacia di questo metodo terapeutico e le conclusioni sono state che l’EMDR è non solo efficace nel trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico, ma che ha addirittura l’indice di efficacia più alto per questa categoria diagnostica.

L’applicazione della tecnica EMDR è svolta sempre all’interno di un processo psicoterapeutico che ha come base teorica il modello AIP (Shapiro F., 1995), Adaptive Information Processing, cioè il modello dell’elaborazione adattiva dell’informazione. Tutti gli esseri umani possiedono un sistema fisiologico di elaborazione dell’informazione volto a fornire risoluzioni positive (adattive) di ciò che accade in ogni istante.

Tutti noi fin dall’infanzia viviamo nella quotidianità delle esperienze negative che tuttavia vengono in maniera adattiva immagazzinate dal nostro cervello, contribuendo alla formazione stessa della nostra identità e della nostra mente. L’informazione viene cioè integrata in uno schema cognitivo ed emotivo positivo, utile alla persona (Shapiro F., 1995).

Altre volte viviamo delle esperienze così dirompenti da non essere immagazzinate in modo funzionale, divenendo dei veri e propri traumi.

Un trauma è definibile come un evento dirompente, che sovrasta la capacità della mente di integrare ed elaborare i dati ad esso connessi.

Esistono diverse forme di esperienze potenzialmente traumatiche a cui può andare incontro una persona nel corso della vita. Esistono i “piccoli traumi” o “t”, ovvero quelle esperienze soggettivamente disturbanti che sono caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intesa. Si possono includere in questa categoria eventi come un’umiliazione subita o delle interazioni brusche con delle persone significative durante l’infanzia. Accanto a questi traumi di piccola entità si collocano i traumi T, ovvero tutti quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. A questa categoria appartengono eventi di grande portata, come ad esempio disastri naturali, abusi, incidenti etc.

Subito dopo aver vissuto un evento traumatico il nostro organismo e il nostro cervello vanno incontro ad una serie di reazioni di stress fisiologiche, che nel 70-80% dei casi tendono a risolversi naturalmente senza un intervento specialistico.

Alcune persone continuano a soffrire per un evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo dall’evento stesso. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni angosciose e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente.

Questo quadro sintomatologico, che può arrivare fino a delinearsi in un Disturbo da Stress Post-Traumatico, è caratterizzato appunto dal “rivivere” continuamente l’evento traumatico, continuando a provare tutte le emozioni, sensazioni e pensieri negativi esperiti in quel momento. E’ proprio quando ci si rende conto che le reazioni sono di questo tipo e che la sofferenza è significativa che è necessario chiedere aiuto ad uno specialista.

La stimolazione bilaterale degli emisferi cerebrali attraverso i movimenti oculari permette di operare una riconnessione, che ha riscontri a livello neurobiologico (Solomon R., Shapiro F., 2008; Siegel D.J., Hartzell M., 2005), tra il ricordo dell’evento traumatico ed il resto dell’esperienza individuale.

Ogni ricordo è composto di immagini, sensazioni, emozioni e pensieri: l’EMDR permette al cervello di rielaborare in senso positivo il pensiero relativo al ricordo, quindi modifica l’idea di sé e del proprio valore; contemporaneamente diminuiscono le sensazioni corporee spiacevoli o dolorose e si attenuano le emozioni negative, fino alla scomparsa totale dei sintomi.

Il lavoro contemporaneo su tre livelli, corporeo, emotivo e cognitivo conduce all’integrazione delle informazioni fino a formare una nuova memoria: il fatto accaduto diventa un ricordo accessibile e gestibile, privo delle connotazioni sintomatiche e disturbanti che solitamente lo caratterizzavano.

Per cui grazie al lavoro con L’EMDR i pazienti ricordano ancora l’evento o l’esperienza, ma sentono che essa veramente fa parte del passato e il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adulta. Infatti, durante l’elaborazione i pazienti gradualmente raggiungono una visione più matura e funzionale dell’esperienza vissuta.

dopo l’EMDR il paziente ricorda ancora l’evento ma sente che tutto ciò veramente fa parte del passato e il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più adulta” (Fernandez I., Maslovaric G., Veniero Galvagni M., 2011).

 

 

 

Preoccupazioni normali e pensieri ossessivi: come nascono, come si mantengono e come si eliminano.

pensiero ossessivo

A cura di dott. Rossano Bisciglia

 

Per molto tempo è stata diffusa la convinzione che le preoccupazioni delle persone affette da disturbo ossessivo – compulsivo (DOC) fossero strane e che le persone “normali” non avessero mai analoghi pensieri. Verso la fine degli anni 70, la ricerca ha rilevato come tutti i pensieri che caratterizzano chi soffre di DOC, percorrono o occasionalmente, nella testa delle persone. A molti è capitato, in qualche occasione, di pensare, di potersi contaminare venendo a contatto con alcuni oggetti o poter essere responsabili di qualche sciagura a causa della propria distrazione, pur avendo consapevolezza dell’infondatezza di queste preoccupazioni.

Il nostro organismo sembra organizzato in modo che le reazioni emotive provocate immaginando eventi negativi siano molto simili a quelle che provocano eventi reali. Per questo motivo, se vediamo un film horror ben fatto, proviamo terrore, pur essendo razionalmente consapevoli che si tratta solo di un film. Questo pensiero non può che provocarci ansia, come quando percepiamo realmente un pericolo. Il fatto di prefigurarsi eventi negativi, per quanto improbabili, e provare ansia nel momento in cui li immaginiamo è quindi un fatto assolutamente normale e soprattutto molto diffuso.

Qual è allora la differenza fra un’eccessiva ma normale preoccupazione negativa e un pensiero ossessivo ?

La ricerca in tal senso pone l’accento non sulla natura del pensiero, ma sulla frequenza con cui essa si presenta alla mente della persona. Il motivo per il quale, inoltre, certe persone si preoccupano senza motivo una volta ogni tanto, mentre altre sono ossessionate da tali angosce, risiede nella capacità o meno di tollerare il pensiero e l’ansia che esso genera. Un esempio potrà chiarire il concetto: immaginiamo di essere alla guida della nostra autovettura, mentre procediamo ad andatura che rientra nei limiti consentiti dal codice della strada, avendo a fianco una persona a noi cara. All’improvviso si fa strada nella nostra mente che potremmo scivolare su un’imprevista macchia d’olio , perdere il controllo della macchina e sbattere contro un albero. A poco a poco il pensiero si potrebbe arricchire di particolari: il sangue, la persona accanto scaraventata sul parabrezza, forse gravemente ferita. Questo scenario non può che metterci ansia ! a questo punto abbiamo due possibilità, ignorare il pensiero, tollerando il rischio di fare un incidente con simili conseguenze, e continuare a guidare come se non ci fosse mai venuto in mente, oppure possiamo non tollerare l’idea e cercare, in qualche modo, di evitare il pericolo percepito, ad esempio riducendo drasticamente la velocità. Appare chiaro come quello che determina la scelta fra le due opportunità sia la capacità o meno di tollerare l’improvvisa ma normale preoccupazione e il disagio a essa connessa.

Se per qualsiasi motivo il pensiero (incidente) avuto è intollerabile ed è vissuto come un indicatore di pericolo da impedire ad ogni costo, ne deriverà certamente una reazione volta a rassicurarci (frenare drasticamente) azzerando momentaneamente l’ansia. Questo è il meccanismo che trasforma la normale preoccupazione negativa in un pensiero ossessivo, che tende e ripresentarsi ripetutamente e a provocare un’ansia sempre maggiore.

 

La terapia cognitiva comportamentale, considerata l’approccio d’elezione per questo genere di difficoltà, mira a insegnare le modalità attraverso le quali ignorare il pensiero, accettare il rischio ed eliminare la necessità di doversi rassicurare per gestire l’ansia che il pensiero genera.

 

CONTINUA…

Auguri di Buone Feste dallo Staff dello Studio Coradeschi

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“Ogni bambino nasce felice.
Ogni bambino nasce innocente e meraviglioso. Ma poi accade qualcosa e tutti quei bambini meravigliosi si perdono; la loro innocenza viene distrutta.
Tutta la loro felicità si trasforma in disperazione. Osserva un bambino che raccoglie conchiglie sulla spiaggia: è più felice dell’uomo più ricco del mondo. Qual è il suo segreto?
Quel segreto è anche il mio. Il bambino vive nel momento presente, si gode il sole, l’aria salmastra della spiaggia, la meravigliosa distesa di sabbia.
È qui e ora. Non pensa al passato, non pensa al futuro.
E qualsiasi cosa fa, la fa con totalità, intensamente; ne è così assorbito da scordare ogni altra cosa. Il segreto della felicità è tutto qui: qualsiasi cosa fai non permettere al passato di distrarre la mente e non permettere al futuro di disturbarti.”

 

Osho

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