Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

“Sapore di sale, Sapore di mare”: il mito della prova costume.

peanuts

A cura della dott.ssa Giovanna Mengoli

“Non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt’al più sorridere”

Luigi Pirandello

 

– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.

– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.

Mia moglie sorrise e disse:

– Credevo guardassi da che parte ti pende.

Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:

-Mi pende? A me? Il naso?

Uno, nessuno e centomila.

Luigi Pirandello

Le vacanze estive si avvicinano o per alcuni sono già arrivate. Le vacanze marine in cui ci si sveste esponendo il nostro corpo non solo al sole, ma anche al confronto con gli altri, siano essi reali come i nostri vicini di ombrellone o virtuali quali ad esempio la modella di Calzedonia.

È arrivato il tempo in cui si espone il nostro corpo, più o meno in forma, più o meno scultoreo, dopo i lunghi mesi invernali in cui maglioni e cappotti ci coprivano dagli occhi critici altrui, ma soprattutto dai nostri.

Insomma, è arrivato il tempo della fatidica prova costume.

L’origine dell’ossessione per il corpo e per la bellezza, che oggi sembra risuonare maggiormente grazie ai social network ed ai selfie, in realtà si perde nella notte dei tempi.

Da sempre, la bellezza, infatti, rappresenta un buon predittore di successo nella vita. Non è cosa strana, visto che alla bellezza vengono associate anche altre doti; questo viene definito effetto alone della bellezza.

I greci dicevano KALOS KAI AGATHOS ovvero che tutto ciò che è bello (“Kalos”) è anche vero e buono (“agathos”), e viceversa.

Per tali motivi, nell’antichità classica, gli artisti avevano il compito di riprodurre statue di personaggi come imperatori, condottieri, non in maniera fedele, bensì idealizzata e con lo scopo di creare corpi non solo attraenti, ma esaltando anche altre doti e virtù.

Tuttora nel linguaggio quotidiano si parla di ‘bella’ e ‘buona azione’ in maniera indifferente.

A quella che è la schiavitù della bellezza nemmeno i bambini vi sfuggono.

Un neonato giudicato attraente avrà più attenzioni e sarà considerato maggiormente gestibile dai genitori. Anche a scuola, i bei bambini riusciranno a sviluppare un maggior numero di relazioni, gettando le basi di un successo sociale che li accompagnerà per il resto della loro vita (Costa, Corazza, 2006).

Crescendo, il nostro aspetto fisico potrebbe influenzare anche un colloquio di lavoro.

Sappiamo tutti ormai, dell’importanza dell’aspetto fisico ad un colloquio di lavoro e non solo: la bellezza è un indicatore importante anche durante l’intera carriera lavorativa.

Nelle donne, inoltre, rispetto agli uomini, il giudizio sulla propria bellezza appare maggiormente severo. Questo inizia di solito si acuisce in adolescenza, ma inizia già nell’infanzia e nello specifico quando si comincia ad avere come termine di paragone le bambole, quali ad esempio le Barbie, che incarnano appunto un ideale di bellezza e non la realtà dei fatti.

Agli uomini, invece, piuttosto che un ideale di magrezza è presentato un modello di corpo snello e muscoloso.

A nostra volta, tutti noi accettiamo supinamente questi ideali. L’eccessiva importanza riservata all’immagine corporea è frutto della convinzione –abbastanza fondata- che per essere socialmente accettati bisogna apparire in forma.

Per tutte queste ragioni, la relazione della bellezza con il benessere, con il successo scolastico o lavorativo spinge molte persone a spendere numerose energie e anche denaro per la ricerca di un aspetto fisico più gradevole ricorrendo alla cosmetica, alle diete, all’esercizio fisico e alla chirurgia estetica.

Il rischio maggiore poi, è che a causa di criteri scelti da altri veniamo indotti a sacrificare la nostra unicità e autenticità restando ossessionati dalla ricerca di una bellezza che non esiste con il pericolo di sviluppare una vera e propria patologia tra cui il disturbo di dismorfismo corporeo o dismorfofobia.

Il termine dismorfofobia deriva dal greco e vuol dire cattiva forma.

Chi soffre di disturbo di dismorfismo corporeo, infatti, considera reale e intollerabile un determinato difetto fisico e assolutamente legittimo cercare di eliminarlo in ogni modo. Anche quando prende coscienza dell’irragionevolezza del proprio accanimento estetico poi, in molti casi, prova vergogna per il proprio atteggiamento e per le sue implicazioni pratiche nella vita di tutti i giorni.

L’elemento centrale di tale disturbo è la percezione spesso errata di se stessi.

Solitamente la percezione che abbiamo di noi stessi rispetto all’aspetto esteriore non combacia con quella che gli altri hanno di noi.

Le preoccupazioni sul peso e la forma del corpo, inoltre, diventano giudizi sul valore personale riguardando da vicino la nostra autostima.

Detto questo rimane il fatto che nel disturbo di dismorfismo corporeo l’imperfezione è ciò che non viene accettato, ma spesso “accettare ciò che accade nella vita è una strategia efficace per ridurre la sofferenza”.

Ma può quest’ultima dipendere solamente dal contenitore piuttosto che dal contenuto?

 

Bibliografia

CostaM., Corazza L., (2006). Psicologia della bellezza. Firenze: Giunti.

 

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