Psicologia, Psichiatria e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Centro di Schema Therapy EMDR e Mindfulness ad Arezzo

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Sono stressato/a!

Sono stressato/a, sono “un fascio di nervi”, mi sento esaurito/a!

a cura di Chiara Mercurio

“Se c’e’ soluzione perché ti preoccupi? Se non c’é soluzione perché ti preoccupi?”

Aristotele

Sono le due di notte e siete a letto. Domani è un giorno importante e impegnativo; forse riuscirete ad ottenere ciò per cui avete lavorato per mesi e mesi senza tregua, cercando di fare bella impressione al titolare, all’allenatore, al professore, ai colleghi, ai parenti, al/la fidanzato/a … e magari anche a voi stessi.
Beh allora avete bisogno di dormire per poter dare il meglio di voi domani! Ma gli occhi proprio non vi si chiudono. Provate di tutto per rilassarvi: respirate più lentamente, contate le pecorelle, immaginate un panorama da cartolina … ma niente! Ed ecco che parte “il treno”: pensate che, se non vi addormentate fra pochi secondi, domani sarete uno straccio, non potrete dare il meglio di voi, le vostre risorse non saranno sufficienti per affrontare con successo l’importante impegno, quindi molto probabilmente addio carriera/esame/competizione sportiva!

Ma perché?
Per dare una spiegazione a questo fenomeno che accomuna tutti gli esseri umani dobbiamo andare indietro nel tempo. Pensiamo al nostro antenato, all’uomo preistorico in una sua normale giornata. Mentre cammina nella savana, improvvisamente si trova davanti un orso (evento stressante). Cosa accade? Il suo organismo mette in moto tutta una serie di reazioni automatiche che gli consentono di correre il più velocemente possibile. Entra, così, in ballo la “risposta allo stress”: ecco che il battito cardiaco accelera, così come la pressione sanguigna e la frequenza respiratoria, la digestione viene inibita, il sangue diviene più denso, aumenta la sudorazione e il tono muscolare, concorre la rapida mobilitazione di energia (glucosio) dai siti di “stoccaggio”, etc. Una volta cessato il pericolo, questa reazione fisiologica si interrompe e viene ristabilito l’equilibrio “omeostatico” precedente. In poche parole, lo stress ha salvato la vita al nostro antenato.

Ma cosa succede oggi?
Preoccupazioni, paure, anticipazione di eventi stressanti, la rata del mutuo, la malattia, un esame, una riunione di lavoro, una competizione sportiva: questi sono i nostri odierni eventi stressanti, che attivano le stesse risposte fisiologiche del nostro antenato di fronte ad un orso (anche se modulate). Non diventiamo stressati perché inseguiti dai predatori, ci basta l’anticipazione di ciò che percepiamo come minaccia. Ma ecco che, se la risposta allo stress si attiva ripetutamente o se non si riesce a disattivarla una volta terminato l’evento stressante, entriamo nella zona di rischio che può portare all’esaudimento delle nostre energie; allora digeriamo male, il sonno non è ristoratore, ci sentiamo con i “nervi a fior di pelle”, “ci sentiamo un fascio di nervi”, ci irritiamo facilmente, non riusciamo a concentrarci nel lavoro o nello studio, non riusciamo a deciderci su questioni quotidiane e di vita, facciamo ricorso a rimedi “fai da te” come bere più caffè, “energy drinks”, mangiamo più frequentemente cibi “spazzatura”, il nostro appetito sembra non avere più controllo, etc.

Allora cosa possiamo fare?
Esistono vari modi per cercare di affrontare al meglio uno stress, ma dobbiamo ricordare che “non tutto va bene per tutti”, quindi ognuno potrà trovare quello che meglio gli si addice.
Ecco qui un elenco di alcune possibili strategie:
– Esercizio fisico.
– Sviluppare, o sfruttare meglio, alcune capacità cognitive come la capacità di risolvere i problemi, prendere decisioni, la flessibilità di pensiero, assertività (la capacità di esprimere e perseguire i propri desideri e opinioni rispando gli altri), etc.
– Alimentazione equilibrata.
– Tecniche di rilassamento, di respirazione e meditative.
– Gestione del tempo e delle proprie risorse (interne ed esterne).

Corso Base di Training Autogeno, FIRENZE 2015

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Il Training Autogeno è una tecnica di rilassamento di interesse psicofisiologico, usata in ambito clinico nel controllo dello stress, nella gestione delle emozioni e nelle patologie con base  psicosomatica. Fu ideato e sviluppato da J.H. Schultz a partire dagli anni ’20. 

Per capire con esattezza cosa sia il training autogeno partiamo dal significato delle parole:

  • Training vuol dire addestramento, allenamento, formazione, esercizio;
  • Autogeno vuol dire che si genera da sé

L’etimologia della denominazione della tecnica permette di spiegare  i suoi obiettivi, tutti volti a rendere la persona che si sottopone a tale pratica in grado di produrre da se un allenamento al rilassamento, al cambiamento psicologico e al controllo di alcuni stati fisici, attraverso una crescente capacità autonoma di “autosuggestione” che inizialmente viene guidata e insegnata da un esperto.

La pratica del training autogeno ha tra le sue finalità un maggior controllo dello stress, dell’ansia, una riduzione generale della tensione emotiva e il recupero delle energie, anche grazie a un ridimensionamento spontaneo delle emozioni negative.

 Il Training autogeno è utile inoltre un aiuto nella cura di ansia, insonnia, emicrania, asma, ipertensione, attacchi di panico e in tutte quelle patologie dove l’aspetto psicosomatico sia rilevante. Ma il TA ha un ruolo positivo anche in molti altri contesti, in quanto favorisce il recupero di energie, permettendo una migliore gestione delle proprie risorse. Migliora inoltre la concentrazione e contribuisce al conseguimento di alte prestazioni.

Lo studio Coradeschi è pertanto lieto di informarvi che la nuova edizione del Corso Base Di Training Autogeno si svolgerà a Firenze, Via Giusti 48 nella splendida cornica di Palazzo Capponi.

Il corso, condotto dal Dott. Rossano Bisciglia e dalla Dott.ssa Elena Mannelli, sarà articolato in 8 incontri a cadenza settimanale in orario pomeridiano e serale. 

 

Per info e contatti

r.bisciglia@gmail.com 349 2582818

ele.mannelli@gmail.com 339 8414536

 

Don’t worry be happy: l’arte del Rimuginio

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 Don’t worry be happy:“L’arte del rimuginio”

a cura di Giovanna Mengoli

“Don’t worry about a thing,

‘Cause every little thing gonna be all right!”

                                                     Bob Marley – Everything gonna be allright

“And you’ll ask yourself

Where is my mind?” 

Pixies – Where is my mind

A tutti noi capita di sentirsi preoccupati, soprattutto quando ci troviamo in circostanze che sfuggono, in tutto o in parte, al nostro controllo. Ognuno di noi deve sopportare lo stress quotidiano derivante da impegni lavorativi e scolastici, dai rapporti con gli altri e da molti aspetti della vita di tutti i giorni. Capita a tutti noi di svegliarsi prima del previsto e incominciare a rimuginare su impegni e problemi del giorno successivo, non riuscendo così più a riaddormentarsi. I pensieri ci attanagliano la mente e chiedono di trovare risposte e soluzioni immediatamente. Più tardi durante la giornata, stanchi per la notte insonne ed ancora più preoccupati torniamo nuovamente a preoccuparci su tutte le possibili difficoltà che sembrano comparire all’orizzonte. A questo punto, in qualsiasi momento della giornata, anche quando svolgiamo delle attività piacevoli, ci troviamo con la testa imprigionata dentro al rimuginio, non riuscendo più a godere del momento presente, continuamente preoccupati di quello che potrebbe accadere in futuro.

Qual è la caratteristica fondamentale del rimuginio?

La caratteristica fondamentale del rimuginio (in inglese “worry” letteralmente preoccupazione)  è la sua ripetitività e la sua capacità pervasiva di occupare lo spazio mentale con  pensieri  ripetitivi, incontrollabili, intrusivi e focalizzati su contenuti negativi di eventi  che potrebbero accadere nel futuro. Il rimuginio è un sintomo centrale soprattutto nei disturbi d’ansia (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006) ma anche nella depressione e nei disturbi alimentari (Sassaroli & Ruggiero, 2012). Si tratta, inoltre, di un tipo di pensiero di tipo verbale,  astratto, privo di dettagli e di focalizzazione visiva. Se ci fermiamo a pensare (senza rimuginare!) ci accorgeremo che ci preoccupiamo ponendoci sempre le stesse domande e non scendendo nei dettagli degli eventi che ci accandono.

Ma perchè non riusciamo a fare a meno di rimuginare?

Il rimuginio è tanto più grave e difficile da eliminare quanto più attribuiamo ad esso significati positivi, come pensare che rimuginare aiuti a risolvere i problemi, prepari al peggio, riduca la probabilità che accadano cose negative, anche se non esiste nessuna connessione tra il rimuginio e l’evento temuto, etc. La tendenza a rimuginare ci da apparentemente l’illussione di poter tenere il nostro futuro sotto controllo, evitando i possibili imprevisti, in realtà il sovraccarico di pensieri ci distrae costantemente dalla realtà che stiamo vivendo aumentando sostanzialmente il livello dello stress vissuto quotidianamente.

Perchè non riusciamo a non preoccuparci?

Spesso non riusciamo ad evitare il rimuginio perchè ci sembra che questo meccanismo sia fuori dal nostro controllo e che una volta messo in moto tale processo sia difficile da arrestare, anzi che più ci si preoccupa di un problema più insorgano nuove preuccupazioni. In realtà il rimuginare è figlio di un abitudine nata dal desiderio di evitare gli imprevisti e da un bisogno, a volte estremo, di avere ogni aspetto della vita sotto controllo. La realtà dei fatti è ben diversa. Proviamo a pensare a tutte le volte in cui il rimuginio si è interrotto da una telefonata, da qualche evento che ci ha distratto, o un’ urgenza improvvisa. In quel momento controlliamo il rimuginio, anche se non ce ne accorgiamo. Si tratta di accorgersi e abituarsi a mettere in atto un altro comportamento mentale, allenarlo finché non sarà una nuova abitudine.

Ecco una delle tante piccole indicazioni che la psicoterapia cognitiva suggerisce per regolare il proprio rimuginio:

Prendi un appuntamento con il tuo rimuginio (Wells, 2009; Lehay, 2007).

Cosa si può fare?

Innanzitutto è possibile prendere un appuntamento con il proprio rimuginio. Per esempio, puoi stabilire che alle 18 del pomeriggio dedichi un’ora di tempo a passare in rassegna tutto ciò che ti preoccupa. Questo è il tempo del rimuginio, segnalo in agenda e rinvia il rimuginio a quel momento della giornata o della settimana.

Scrivilo sull’agenda.

Scegli un momento in cui sei certo di essere libero di dedicarti al rimuginio.

Quando durante la giornata ti accorgi di essere caduto nel rimuginio, fermati e posticipa ogni previsione negativa al tuo appuntamento con il rimuginio. Hai la possibilità di occupartene e tempo a sufficienza ma non in questo momento.

Quando arriva il tempo del rimuginio concediti di preoccuparti in libertà sui temi della giornata ma solo se lo consideri effettivamente ancora utile. Altrimenti hai sempre il tuo appuntamento domani alla stessa ora.

Infine, ricordati di annotare sull’agenda o su un tuo diario se hai rimuginato, su cosa e a cosa ti è servito. Così almeno, se ti devi preoccupare puoi portare a casa qualche insegnamento.

A cosa serve questo esercizio?

Questo esercizio ha diversi scopi in psicoterapia cognitiva.

Primo, aiuta a vedere che il rimuginio è qualcosa di assolutamente controllabile. Secondo, si può vivere molto meglio la maggior parte della giornata. Terzo, quando il rimuginio arriva si può lasciare andare e scoprire che non esiste una vera EMERGENZA, non c’è l’obbligo di una risposta immediata. La soluzione può aspettare. Infine, quando ci si dedica al rimuginio è possibile scoprire che le preoccupazioni sono molto meno paurose o probabili di quanto sembrassero nel momento in cui era scattato l’allarme.

Ma, se l’ansia e lo stress del rimuginio persistono invalidando la nostra serenità quotidiana, forse è il caso di una consulenza professionale.

La psicoterpia cognitivo – comportamentale è un approccio che aiuta a regolare  e a gestire le nostre preoccupazioni arrivando ad accettare tali pensieri e le emozioni che ne derivano. Imparando che il problema non è far cessare i pensieri, ma arrivare a modificare nel modo migliore la nostra relazione con essi, vedendoli semplicemente per quello che sono flussi, eventi mentali, senza perderci in essi.

 

Bibliografia

  • Sassaroli, S., Lorenzini, R. & Ruggiero, G.M. (2006). Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia. Raffaello Cortina Editore.
  • Sassaroli, S. & Ruggiero, G.M. (2010). I disturbi alimentari. Edizioni Laterza.
  • Wells, A. (2011). Terapia metacognitive dei disturbi d’ansia e della depressione.

I pensieri sono solo pensieri, non fatti

Luca stava andando a scuola.

Era preoccupato per la lezione di matematica.

Non era sicuro di poter tenere ancora la classe sotto controllo.

Questo non faceva parte dei compiti di un bidello.

 

Leggendo questa frase accade un fenomeno particolare. Succede che la nostra mente si trova constantemente a dover “aggiornare” le informazioni che entrano trasformando mentalmente la scena, all’inizio Luca ci appare come un bambino che va a scuola, poi diventa un maestro ed infine l’immagine mentale diventa quella di un bidello.

Questo esempio illustra come noi operiamo implicitamente inferenze a partire da fatti nudi che leggiamo, siamo costantemente incentrati ad attribuire significati alle informazioni che ci arrivano dall’esterno. E sono questi commenti, che genera la nostra mente, ad farci sentire poi un emozione congrua con il pensiero che abbiamo fatto.

Spesso però non siamo consapevoli che attributiamo significati ed interpretriamo sulla base di inferenze. La difficoltà nel separare gli eventi dalla loro interpretazione può diventare causa di numerosi problemi.

 

“I pensieri sono solo pensieri” appare probabilmente come una frase ovvia, banale e forse scontata, ma in realtà se ci soffermiamo a “pensarci” e a comprendere il significato di queste parole l’effetto nella nostra vita quotidiana così come il sollievo della nostra sofferenza emotiva può essere davvero importante.

Avviene  normalmente, ed è forse per questo che tendiamo a non accorgercene, che noi crediamo letteralmente al contenuto dei pensieri della nostra mente, come se fossero dati di realtà, “come se” fossero veri. Per cui a ragione di questo agiamo e ci comportiamo sulla base di questi.

E questo è vero per tutti, così come è particolarmente accentuato nel ragionamento ossessivo o nel rimuginio ansioso tipico di alcuni disturbi psicologici. Ed è così che cadiamo in un errore che ci porta ad avere la sensazione che aver avuto quel pensiero significhi qualcosa, potrebbe indicare che è più probabile che accada, o potrebbe dirci che siamo persone cattive, che non va bene avere certi pensieri, poichè vi è la tendenza ad attribuirvi un significato.

A ragione di questo cominciamo a mettere in atto una serie di meccanismi assolutamente controproducenti per cercare di “controllare” il contenuto della nostra mente. Speriamo di non pensarci, tentiamo di sopprimere il pensiero, cerchiamo di ignorarlo con tutta la nostra forza con l’ovvio, ma quanto mai paradossale effetto, che la portata, la frequenza e l’impatto negativo di tali pensieri risulti ancora più forte e ci condizioni in misura sempre maggiore.

Pensare ad un evento negativo non incide nella probabilità che questo accada, allo stesso modo che pensare alla pioggia non incide nel meteo. Solo che spesso noi non siamo così consapevoli di questo meccanismo pertanto ci lasciamo trasportare da quello che crediamo essere vero.

Cosa fare allora? Ricordare che i pensieri sono SOLO contenuti mentali, che molti di questi possono essere belli, brutti, assurdi, bizzari, perchè è così che la nostra mente funziona e che il modo migliore per “gestire” le angosce che da questi scatoriscono è proprio sollevarci dall’onere di doverlo fare. Lasciare scorrere i pensieri ed accettarli per quello che sono è il modo migliore per riuscire a liberarsene.

La pratica Mindfulness prevede degli esercizi mirati a sviluppare la consapevolezza del momento presente. Tale approccio fornisce gli strumenti per imparare a veder scorrere i propri pensieri come titoli di coda di un film proiettati nello schermo della nostra mente prestandovi un attenzione non giudicante in modo che questi passino, con il fine di contrastare la tendenza abituale  del “fare qualcosa” per controllare i propri pensieri spesso una delle principali fonte di sofferenza emotiva.

 

Dott.ssa Elena Mannelli

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Schema Therapy. Un approccio per le difficoltà emotive di lunga durata

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A cura di Dott. Rossano Bisciglia
La Schema Therapy è un nuovo sistema di psicoterapia che integra elementi di terapia cognitiva comportamentale, della Gestalt, della psicoanalisi, della teoria dell’attaccamento, della psicoterapia costruttivista, della psicoterapia focalizzata sulle emozioni, in un modello esplicativo chiaro ed esaustivo formulato dal Dr. Jeffrey Young.
La Schema Therapy è particolarmente utile nel trattamento di ansia e depressione cronica, disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata), difficili problemi di coppia, difficoltà di lunga data nel mantenere relazioni sentimentali soddisfacenti e nell’aiutare a prevenire la ricaduta nel disturbo da uso di sostanze. E’ dimostrata, inoltre, la sua efficacia nel trattamento di pazienti con difficoltà complesse e di lungo termine come i Disturbi di Personalità, in particolar modo il Disturbo Borderline di personalità, come mostrato dallo studio scientifico condotto dal Prof. Arnoud Arntz. Altri studi sono in corso d’opera, ma i risultati mostrano come vi siano degli effetti positivi anche con pazienti che soffrono di Disturbo Evitante di Personalità e di Disturbo Antisociale di Personalità, nonché con quelle patologie psichiatriche che hanno mostrato resistenza ad altre forme di Terapia e che spesso vengono definite croniche.
Il focus è il concetto di “schema mal adattivo precoce”, ossia un tema costituito da ricordi, emozioni e sensazioni che viene elaborato lungo tutto l’arco della propria vita che genera dei comportamenti disfunzionali. Tuttavia, pur essendo fonte di sofferenza, gli schemi vengono mantenuti dalla persona in quanto rappresentano il conosciuto, il familiare a cui non ci si vuole distaccare. Ecco che la persona viene attratta da quelle situazioni che rafforzano gli schemi, rendendo difficile non solo il cambiamento ma anche il riconoscimento della loro disfunzionalità.
Come nasce lo schema mal adattivo precoce? Young individua dei “bisogni universali” che ogni persona percepisce ma non sempre vede soddisfatti; la frustrazione di questi bisogni, soprattutto in giovane età, porta alla creazione dello schema maladattivo precoce.
Quali sono gli “schemi maladattivi precoci” della Schema Therapy?
Distacco e rifiuto
1.
Abbandono/Instabilità: ci si aspetta instabilità, inaffidabilità o la perdita di persone che sentiamo vicine.
2.
Sfiducia/Abuso: pensiamo che gli altri ci faranno soffrire, ci sfrutteranno, ci umilieranno, ci tradiranno, ci mentiranno, ci manipoleranno o si approfitteranno di noi.
3.
Deprivazione emotiva: la persona crede che i suoi bisogni emozionali primari di attenzione, empatia, affetto e protezione non verranno mai soddisfatti dagli altri.
4.
Inadeguatezza/Vergogna: ci si sente imperfetti, cattivi, non voluti, inferiori o inutili.
5.
Esclusione sociale/Alienazione: ci si sente isolati dal resto del mondo, diversi o non ci si sente parte di alcun gruppo o comunità.
Mancanza di autonomia e abilità
6.
Dipendenza/Incompetenza: ci si sente incapaci di gestire le proprie responsabilità quotidiane con competenza senza un notevole aiuto da parte degli altri.
7.
Vulnerabilità al pericolo o alle malattie: ci sentiamo sull’orlo di una catastrofe finanziaria, medica, naturale o criminale di grandi dimensioni, senza prove che supportino questa convinzione. Si potrebbe essere concentrati su una condizione medica, sulla perdita di controllo emotivo, o su un fattore esterno (disastri aerei, ascensori).
8.
Invischiamento/Sé poco sviluppato: siamo eccessivamente coinvolti da un punto di vista emotivo da un partner o dai genitori a scapito della vostra individualità.
9.
Fallimento: crediamo di aver fallito, che inevitabilmente falliremo o che fondamentalmente siamo inadeguati rispetto ai nostri simili.
Mancanza di regole
10.
Pretese/Grandiosità: ci si crede superiori agli altri e non tenuti a rispettare le regole di reciprocità in situazioni normali.
11.
Autocontrollo / Autodisciplina insufficienti: si ritiene sempre difficile oppure ci si rifiuta di adottare l’autocontrollo e la tolleranza alla frustrazione per raggiungere i propri obiettivi, o di contenere manifestazioni eccessive delle proprie emozioni e impulsi.
Eccessiva attenzione ai bisogni degli altri
12.
Sottomissione: ci si sente costretti a sottomettere i propri bisogni ed emozioni agli altri, evitando di provare rabbia, vendetta o abbandono.
13.
Autosacrificio: si va volontariamente incontro ai bisogni degli altri a scapito della propria gratificazione.
14.
Ricerca di approvazione/Ricerca di riconoscimento: si accentua il desiderio di ricevere approvazione, riconoscimento o attenzione da parte degli altri, o di adattarsi a discapito dello sviluppo di un vero senso di sicurezza e di se stessi.
Ipercontrollo e inibizione
15.
Negatività/Pessimismo: si mostra una costante attenzione agli aspetti negativi dell’esistenza (dolore, morte, perdita, delusione, ecc.)
16.
Inibizione emotiva: si reprimono eccessivamente comportamenti, sensazioni o modalità comunicative spontanei per evitare di essere criticati dagli altri o di vergognarsi, o la possibilità di perdere il controllo dei propri impulsi.
17.
Standard severi/Ipercriticismo: il soggetto sente e si aspetta dagli altri di dover soddisfare standard interni di comportamento e di prestazione estremamente rigidi, di solito per evitare di essere criticati.
18.
Punizione: si pensa di dover essere severamente puniti per gli errori commessi e lo si pensa anche degli altri.
A partire dagli schema mal adattivi si sviluppano dei “mode”, ossia degli stati emotivi a cui si collegano degli aspetti cognitivi e comportamentali. Il paziente oscilla tra i diversi stati emotivi che sono stati raggruppati da Young in quattro categorie:

I Mode del Bambino: bambino vulnerabile, bambino arrabbiato, bambino impulsivo/indisciplinato, bambino felice;

I Mode di Coping Disfunzionale: resa, evitamento, ipercompensazione;

I mode dei Genitori Disfunzionali: genitore punitivo/critico, genitore abusante, genitore richiedente;

Il Mode dell’Adulto Sano: Adulto sano, che si occupa di proteggere e accudire il bambino vulnerabile, porre dei limiti al bambino arricciato e indisciplinato, in accordo con i principi della reciprocità e autodisciplina.

Obiettivo della Schema Therapy, quindi, è insegnare al paziente come rafforzare il mode dell’Adulto sano e dargli più spazio in modo da trovare modalità adattive di soddisfacimento dei propri bisogni più profondi.BIBLIOGRAFIA

Young, J.E., Klosko, J.S., & Weishaar, M., Schema Therapy: Guida per il Terapeuta, Eclipsi
Young, J.E. & Klosko, J.S,. Reinventa la tua vita, Raffaello Cortina Editore
Young, J.E., Klosko, Marjorie E. Weishaar (2007). La Schema Therapy -la terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità-, Eclipsi

“Voglio essere felice”, “Non voglio essere depresso”, “Voglio smettere di sentirmi ansioso”… L’arte di accettare e vivere pienamente il momento presente.

“Voglio essere felice”, “Non voglio essere depresso”, “Voglio smettere di sentirmi ansioso”, “Voglio avere più autostima”, “Quando si risolverà questo problema sarò finalmente felice”, “Quando avrò quello che desidero mi sentirò appagato”, “Sarò finalmente felice quando lui/lei mi dirà che mi ama”.

L’Acceptance and Commitment Therapy (Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno), o ACT, è una nuova forma di psicoterapia, con solide basi scientifiche, e fa parte di quella che viene definita la “terza onda” della Terapia Cognitivo Comportamentale (Hayes, 2004).
I metodi di cui si avvale forniscono nuove modalità per affrontare le difficoltà di natura psicologica e cercano di cambiare l’essenza dei problemi psicologici e l’impatto che essi hanno sulla nostra vita.
L’obiettivo che si propone è aiutarci a creare una vita ricca, piena e significativa mentre affrontiamo efficacemente lo stress e il dolore che questa porta sempre con sé, facendo sì che questi abbiano un minor impatto su di noi.
L’Acceptance and Commitment Therapy si basa su tre punti fondamentali:
Mindfulness
Tolstoy disse: “C’è solo un tempo importante: ADESSO! È il tempo più importante perché è l’unico su cui abbiamo potere”. Mindfulness è un processo di consapevolezza che significa prestare attenzione e osservare con apertura e curiosità la propria esperienza mentre avviene. Possiamo utilizzarla per entrare in contatto con noi stessi e apprezzare la pienezza e unicità di ogni momento della nostra vita. Recenti ricerche nella psicologia occidentale, hanno provato che praticare la mindfulness può avere benefici psicologici importanti (Hayes, Follette, & Linehan, 2004). Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso; si può comprendere che ci sono molte altre cose da fare nel momento presente, oltre a cercare di regolare e controllare i propri contenuti psicologici.
Accettazione
Quando si parla di accettazione spesso pensiamo a questi sinonimi: “rassegnarsi, tollerare, stringere i denti e tirare avanti, etc.”. Ma l’accettazione nel modello ACT non è intesa in senso passivo, non è un atteggiamento nichilistico auto–distruttivo, ma è un vitale e consapevole contatto con la propria esperienza. Questo concetto si basa sulla nozione che tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva, molto spesso, ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso.
Capire come liberarci dagli eventi indesiderati (come predatori, freddo, inondazioni) è sempre stato un fattore essenziale per la sopravvivenza della razza umana; tuttavia il tentativo di usare questa stessa organizzazione mentale dinanzi alle proprie esperienze interne non funziona.
Impegno e vita basata sui valori
Quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente o finalmente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori.

Dr.ssa Chiara Mercurio

L’arte di dire ciò che penso: “comunicare per stare meglio con me stesso e con gli altri”.

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“è assertivo il comportamento che mette in grado le persone di agire al meglio per il proprio interesse, di essere autosufficienti senza inutile ansia, di esprimere i propri sentimenti e diritti senza ledere quelli degli altri”

Alberti & Emmons (1974).

  • Ti sei mai sentito sfiduciato, impotente e incapace di fare qualsiasi cosa?
  • Ti è mai capitato di dover fare sforzo su te stesso per far sentire la tua voce?
  • Ti è difficile fare in modo che gli altri sappiano quello che desideri?
  • Ti capita di essere trascinato dagli altri a causa della tua incapacità di riaffermare i tuoi diritti? O forse se tu ad esercitare pressione sugli altri per averla vinta?

È sempre più frequente che molti di noi si rivedano in questo tipo di domande la motivazione che è difficile per la maggior parte di noi avere un comportamento assertivo.

Ma che cosa è l’assertività?

L’assertività è quella competenza relazionale che permette di riconoscere le proprie emozioni e bisogni e di comunicarli agli altri, mantenendo, nel contempo, una positiva relazione con gli altri; la legittima espressione dei propri diritti, interessi, sentimenti e convinzioni evitando la violazione o negazione dei diritti altrui (Galeazzi e Porzionato, ’98).

Si tratta, quindi, di una condizione realizzabile nel momento in cui esiste un equilibrio tra la considerazione verso se stessi e quella verso gli altri, equilibrio spesso difficile da raggiungere soprattutto nelle situazioni quotidiane.

Spesso, infatti, nelle relazioni interpersonali, gli individui possono collocarsi nelle posizioni estreme del comportamento passivo (in cui si rinuncia ai propri bisogni e alle proprie opinioni per privilegiare quelli degli altri) e del comportamento aggressivo (in cui il raggiungimento dei propri obiettivi viene portato avanti a prescindere o addirittura a spese delle altre persone).

Entrambi questi stili sono definibili come anassertivi, e possono creare numerosi problemi di tipo comunicativo e relazionale.

Infatti, spesso le persone che si comportano passivamente hanno una bassa autostima ed una elevata ansia sociale e cercano disperatamente di ottenere l’approvazione degli altri. Se, da un certo punto di vista, l’accondiscendenza e la disponibilità possono apparire utili per essere accettati dalle altre persone, esse possono, però, creare forti limitazioni alla libertà individuale e determinare facilmente situazioni dalle quali gli altri tendono ad approfittarne. Comportarsi passivamente può essere, in alcuni casi, un modo per proteggersi, per evitare situazioni ansiogene (dire la propria opinione, dissentire, attirare l’attenzione su di sé…) che, però, si rivela dannoso in quanto  ci impedisce di acquisire nuove modalità comportamentali e di liberarsi dei propri limiti. In altri termini, più si resta prigionieri della passività, meno si crede in se stessi e minore è lo slancio verso il cambiamento.

Anche il comportamento aggressivo  al pari di quello passivo può essere un tentativo di difesa dall’ansia, in quanto appare come un metodo per “cavarsi d’impaccio” rapidamente e sbrigativamente e quindi rivelarsi un comportamento inefficace e squilibrato come quello passivo. Inoltre, esso è un tipo di comportamento che può condurre all’isolamento o a relazioni che si mantengono a causa della paura che l’altro ha del comportamento aggressivo.

 

Realizzare l’equilibrio dell’assertività permette di esprime se stessi (idee, sentimenti, desideri) e di comportarsi in modo da ottenere ciò che si desidera, mantenendo il rispetto e la considerazione per gli altri. Risulta, dunque evidente che l’assertività non è una “via di mezzo” tra la passività e l’aggressività quanto piuttosto una “terza via”, che si rivela il modo più vantaggioso di relazionarsi con se stessi e con gli altri.

Lo studio Coradeschi organizza dal mese di Novembre un traning pratico ed interattivo sulla Comunicazione Assertiva.

Comportandosi in modo assertivo ci si sente liberi, a proprio agio ed efficaci; non si rinuncia ai propri obiettivi e quindi si incrementano le possibilità di aver successo e di realizzare i propri desideri. Nello stesso tempo, non ci si sente in colpa verso gli altri, non ci si fa manipolare, non si prevarica nessuno; questo migliora la propria immagine sociale e la possibilità di coltivare relazioni sincere e soddisfacenti in tutti i campi della propria vita.

 

Dott.ssa Cristina Jacchia psicologa – psicoterapeuta cognitivo comportamentale

Dott.ssa Giovanna Mengoli psicologa cognitivo – comportamentale

Per info e iscrizioni:

  1. 0575 354935

info@studiocoradeschi.org

IPOCONDRIA: “Dottore, ho paura di avere qualcosa di brutto”

 

 

A cura di Elena Mannelli

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“sono stato dal medico perchè ho sentito un formicolio alle mani, ho pensato si trattasse del principio della sclerosi multipla di cui è affetta mia zia. Il dottore mi ha visitato, ho fatto esami tutto dall’esito negativo. Mi sono sentito meglio, poi ieri ho avuto un mal di testa e ho temuto fosse qualcosa di brutto, forse potrei tornare dal medico , tanto per essere sicuro”.

Provare ansia per il proprio stato di salute è un’esperienza comune nella vita quotidiana di tutti noi. Soprattutto in certi momenti di vita.

In attesa di un referto oppure prima di un esame o di una visita importante, nostra o di un proprio caro, è possibile sentire ansia e avere la testa invasa da preoccupazioni sulle (spesso immaginate) conseguenze che un cattivo esito potrebbe portare.

Ma quando è che questa paura di avere un malattia diventa un disturbo psicologico?

Le preoccupazioni per la propria salute e la paura di soffrire, di diventare non autosufficienti o di morire possono arrivare ad essere un problema quando peggiorano inutilmente la qualità di vita delle persone.

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Distrubi Mentali (DSM 5) nella sua ultima e recente edizione chiama questo stato di malessere Disturbo d’ansia per la Salute abbandonato il vecchio termine di ipocondria, ma lasciando intatte quelle che sono le caratteristiche che lo descrivono. In realtà è ormai chiaro che chi si preoccupa di avere una malattia sperimenta realmente i sintomi che riporta al medico. Tuttavia, spesso questi sintomi possono essere attribuiti al normale funzionamento fisiologico o ad alterazioni non catastrofiche.

La persona che soffre di questo specifico tipo di ansia passa molto tempo a preoccuparsi circa il proprio stato di salute senza che ci siano effettivamente coerenti motivi medici per farlo. Ricerca con insistenza rassicurazioni, effettua visite, controlli, procedure anche invasive, mosso dal timore di “poter aver qualcosa che non va”. È molto occupato dal verificare costantamente i propri segnali fisici e corporei e un mal di gola potrebbe essere sintomo di qualcosa di ben peggiore, come un tumore, un dolore alle gambe potrebbe essere una trombosi, l’esito di sintomi aspecifici può essere un ictus, un cancro, la sclerosi multipla.

È evidente come tali pensieri possano aggravare la vita quotidiana delle persone. Si è infatti costretti a farsi esami, a chiedere rassicurazioni, che però, purtoppo non bastano mai, perchè il medico “potrebbe non aver visto tutto, potrebbe non essersi accorto, potrebbe aver mal diagnosticato, era troppo giovane, poco esperto” e il vortice continua e il circolo vizioso aumenta. Oppure all’estremo opposto vi è la situazione di totale rifiuto ed evitamento di ogni parere specializzato per il timore che i propri dubbi siano fondati. Anche i messaggi provenienti dai telegiornarli, dalle riviste, dal web possono contribuire ad aumentare il circolo vizioso dell’ansia.

I dati riportano che dal 3 al 10% della popolazione generale soffre di una significativa forma di ansia per la salute e colpisce in egual misura sia uomini che donne. L’andamento della malattia può essere ad alti e bassi, acutizzandosi in momenti di stress acuto o a seguito di momenti di vita particolari, ma tendenzialmente tende a cronicizzarsi nel tempo.

I fattori che possono predisporre a questo tipo di atteggiamento sono di varia natura. Concorrono fattori 1) biologici e genetici, che possono contribuire a predisporre la persona all’ansia, 2) Esperienze infantili (come un ambiente familiare molto premuroso e protettivo 3)Esperienze familiari di malattia o morte 4) Apprendimento (per imitazione di comportamenti visti da altri).

Avendo una specifica vulnerabilità per l’ansia alla salute e quindi avendo sviluppato delle convinzioni rispetto a salute e malattia, al verificarsi di un evento scatenante (sintomi come alterazioni del battito, mal di testa, lettura di articoli medici, ecc…) la persona arriverà ad interpretare erroneamente i sintomi e le variazioni del proprio corpo, temendo si tratti di una qualche malattia. Scatteranno quindi i meccanismi di protezione e rassicurazione, che tuttavia porteranno soltanto un peggioramento delle proprie convinzioni.

Il timore di avere una malattia purtoppo rende schiavi di un disturbo emotivo che genera molto stress e sofferenza.

Per cui cosa fare?

La Terapia Cognitivo Comportamentale è ampiamente riconosciuta come un trattamento efficacie nella cura di queste problematiche.

Il lavoro si concentra pertanto sul tentativo di allentare il circolo vizioso in cui il soggetto inevitabilmente entra andando a spiegare i meccanismi psicologici e comportamentali che alimentano le preoccupazioni, cercando di estringuere rassicurazioni e protezioni poichè principali meccanismi di mantenimento del problema. Particolare importanza viene inoltra atribuita a tecniche di gestione dell’ansia, al far fronte alle paure di malattia e morte in modo realistico ed  enfatizzando l’importanza di stare nel presente.

Il primo passo resta comunque quello di provare a riconoscere la natura psicologica del problema, quando appunto, la quantità delle preoccupazioni rende la vita quotidiana difficile e di conseguenza possono risentirne anche i rapporti interpersonali, sociali e lavorativi incrementando lo stato di malessere psicofisico che può condurre ad una acutizzazione e cronicizzazione del problema.

 

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“.Quando si tratta di malattie, non direi mai di essere un ipocondriaco. Semmai sono un allarmista. Non e’ che mi senta malato di continuo, ma quando mi ammalo penso subito che sia la volta buona .” Woody Allen

 

 

PERDERE PESO … O PERDERE LA TESTA ? GLI EFFETTI DELLA DIETA FERREA

perdere persoA cura di dott. Rossano Bisciglia

La diretta conseguenza dell’estrema preoccupazione per le forme corporee e del peso è cercare di dimagrire seguendo una dieta. Spesso quello che si adotta non è un regime dietetico ordinario, ma una dieta ferrea che è ipocalorica e molto rigida. Il fare una dieta in modo ferreo è probabilmente legato a due caratteristiche cognitive presenti nella mente delle persone: il perfezionismo e il pensiero tutto o nulla. Il più delle volte il perfezionismo si declina in obiettivi straordinari da raggiungere e quando non si raggiungono ci si sente insoddisfatti. L’atteggiamento tutto o nulla invece si esprime nell’eliminare alcuni cibi e assumerne altri che non sono considerati soggettivamente ingrassanti .

Le modalità comportamentali della dieta ferrea nella maggior parte delle persone sono:
• Saltare i pasti
• Ridurre le porzioni
• Eliminare o selezionare certi cibi

Queste modalità in genere sono utilizzate insieme, e ciò implica il più delle volte seguire una dieta con un contenuto calorico molto basso.

Ciò che differenzia una dieta ferrea da un corretto regime alimentare sono gli obiettivi generali: nel primo caso si assumono poche calorie e soprattutto è fondamentale per la persona rispettare questo introito alla lettera, in modo perfetto, anche ingerire 40 calorie in più potrebbe scatenare profondi sensi di colpa e in alcuni casi portare alla perdita di controllo e all’abbuffata. Nel secondo caso la persona ingerisce intorno alle 1200 -1500 calorie al giorno (a seconda dei parametri fisici di riferimento) ed è felice se quasi tutti i giorni riesce ad avvicinarsi a questo obiettivo.

Con tutta probabilità, il più importante e famoso studio che ha valutato gli effetti della dieta ferrea e della perdita di peso sull’uomo è stato condotto circa 50 anni fa in Minnesota da Ancel Keys e collaboratori (Minnesota study). Lo studio nello specifico ha rilevato:
• Modificazioni del comportamento alimentare, quali, aumentata preoccupazione per il cibo, collezioni di ricette, libri di cucina e menu, inusuali abitudini alimentari, incremento del consumo di caffè, tè e spezie, occasionale introito esagerato e incontrollato di cibo;
• Modificazioni emotive e sociali, quali, depressione, ansia, irritabilità, episodi psicotici, cambiamenti di personalità confermati dai test psicologici, isolamento sociale;
• Modificazioni cognitive, quali, diminuita capacità di concentrazione, diminuita capacità di pensiero astratto, apatia;
• Modificazioni fisiche, quali, disturbi del sonno, debolezza, disturbi gastrointestinali, ipersensibilità al rumore e alla luce, edema, ipotermia, parestesie, diminuzione del metabolismo basale, diminuzione dell’interesse sessuale.

Le fasi della dieta ferrea
• Fase della luna di miele: in questa fase la spinta e la volontà di controllare l’alimentazione è fornita da vari fattori (sociali, cognitivi e biologici) e spesso i commenti positivi sull’aspetto fisico rinforzano e sostengono il continuare a seguire la dieta ferrea per raggiungere la tanto desiderata forma fisica. Seguire la dieta, specie nelle fasi iniziali, produce un formidabile incremento dell’autostima e un forte senso di gratificazione, autocontrollo e padronanza. Alcune persone sperimentano un senso di estrema soddisfazione, anche per il fatto che seguire perfettamente la dieta è una cosa che la maggior parte non riesce a fare. Paradossalmente, e questo lo sa bene che si è spesso sottoposto a diete ferree, nel primo periodo, nonostante la restrizione forte ci si sente più vitali, leggeri e a volte euforici. Questo stato di benessere e vitalità da un punto di vista evoluzionistico è utile nelle situazioni di carestia naturale poiché mette la persona nella condizione di migliorare per cercare del cibo.
• Fase dell’ossessione per il cibo, paura di ingrassare ed emozioni negative: con il passare del tempo, lo stato di benessere iniziale viene sostituito da una vera e propria ossessione per il cibo: lentamente tutto diviene cibo, anche l’idea di se stessi. Tale ossessione porta la persona a seguire rituali stereotipati (contare le calorie, mangiare lentamente e tagliare il cibo in piccoli pezzi, nascondere il cibo, cucinare per gli altri) e a pensare al cibo in continuazione, alcuni sognano di mangiare il cibo e in grandi quantità. Anche l’ossessione per il cibo può essere spiegata in un ottica evoluzionistica poiché il pensare al cibo e ai mezzi più idonei per procurarselo può essere fondamentale per la sopravvivenza. In questa fase si assiste inoltre all’aumento della sensibilità verso i segnali esterni che spingono a mangiare e all’emergere di un profondo desiderio di dolci o carboidrati. Parallelamente si assiste alla comparsa delle emozioni negative secondarie alla restrizione alimentare e alla perdita di peso rilevate nello studio sopracitato.
• Fase ipereccitazione, scomparsa dell’ossessione: nella fase finale compare spesso uno stato di ipereccitazione caratterizzato da irrequietezza, dall’incapacità di stare fermi e di rilassarsi, cui sono spesso associati disturbi del sonno con difficoltà nell’addormentamento e precoci risvegli mattutini. Altro segno è l’incapacità di concentrarsi: la mente di chi digiuna arriva a non essere in grado di lasciare correre i pensieri, cosicché la lettura e l’ascolto diventano estremamente difficoltosi.

Dovrebbe essere chiaro che la dieta ferrea è un comportamento che non produce risultati funzionali e sani nella perdita di peso e più in generale nella vita di una persona, ma al contrario contribuisce a cronicizzare abitudini alimentari scorrette e preoccupazioni eccessive per il proprio corpo e forma fisica. La dieta ferrea è considerata uno dei fattori di mantenimento dei Disturbi Alimentari (Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa).

Le linee guida inglesi (NICE, National Institute of Clinical Excellence) raccomandano la Terapia Cognitivo – Comportamentale come intervento di prima scelta per il trattamento degli adulti affetti da Bulimia Nervosa, con un livello di evidenza (A) (evidenza sostenuta da trial randomizzati e controllati). La TCC-BN è superiore agli altri trattamenti (psicoterapici e farmacologici) con cui è stata confrontata.
Il bagaglio di tecniche e di strumenti propri della TCC permette alla persona, dopo un’attenta valutazione psicodiagnostica da parte dello specialista, di acquisire le abilità necessarie per intervenire efficacemente sul problema in breve tempo.

Le bugie dei nostri figli: quando ci dobbiamo preoccupare?

pinocchio

La storia delle fiabe ci insegna che i bambini dicono le bugie da sempre.. tanto da portare Collodi a scrivere una delle più famose favole italiane.

La favola di Pinocchio tratta il comportamento menzognero, spiegando, in modo semplice e dal punto di vista dei bambini, quali sono gli obiettivi che spingono un figlio a dire bugie e a quali conseguenze possono andare incontro..

Uno degli insegnamenti più importanti che Collodi ci dà è che il burattino dovrà mentire tante volte prima di capire a quali conseguenze andrà incontro e non riuscirà ad ascoltare il Grillo Parlante fino in fondo, né Geppetto e neanche la Fata Turchina.. avrà bisogno di sperimentare..

Quando i nostri figli ci mentono, ci possono suscitare delle reazioni emotive spiacevoli che ci disorientano, dalla delusione, alla rabbia, alla frustrazione, al dispiacere, all’umiliazione (quando magari è un insegnante a  farci capire che nostro figlio ci ha mentito, perché ci ha omesso dei brutti voti) fino ad arrivare a sentire che ci stanno sfuggendo di mano e noi non ci sentiamo in grado di recuperarli. Tutto questo ci può allontanare dalla volontà di comprendere nostro figlio (cosa lo ha portato a dire una bugia? Che mi vuole dire con questo atto? Ecc..) conducendoci ad uno scontro che porterà spesso ad issare delle barriere sempre più alte.

La bugia è normale e accettabile e non costituisce un rischio per il bambino, anzi fa parte del suo percorso di crescita, a meno che non diventi un modo costante di relazionarsi col mondo esterno …

Ogni età ha le sue bugie in funzione di specifici obiettivi

A seconda dell’età del bambino la bugia può avere diversi significati e può essere diretta verso determinati obiettivi.

Per esempio un bambino entro i 4 anni ancora non sa bene distinguere tra realtà e fantasia e spesso le “bugie” che gli sentiamo dire fanno parte di un mondo fantastico in cui tutto è possibile per ottenere quello che desiderano… o per evitare una punizione e ci raccontano storie creative su come la nutella sia finita proprio sul loro naso!

Un ragazzo adolescente spesso mente per difendere la sua privacy. In questo caso c’è senz’altro una maggiore intenzionalità, ma ancora non ci dobbiamo preoccupare, perché è funzionale al raggiungimento dell’autonomia del nostro figlio adolescente, fermo restando che, anche se non sembra, un ragazzo di 15 anni ha bisogno di sapere che noi siamo la sua guida, ci continuerà a guardare con la coda dell’occhio senza farsi accorgere, per avere la conferma che sta andando nella direzione giusta.

A volte le bugie nascono per compensare un bassa autostima “oggi la prof mi ha detto che sono stato il più bravo di tutti”, altre volte per esprimere un desiderio.. e quindi la ragazza che non si sente in grado di chiamare il ragazzo che le piace, racconta alle sue amiche che lo ha chiamato, quando non è vero.

Le bugie più frequenti hanno come obiettivo un po’ a tutte le età quello di evitare un punizione.

Certamente se l’obiettivo è quello di evitare una punizione e ogni volta che scopriamo che nostro figlio ha detto una bugia, lo puniamo lo indurremo a ripetere il comportamento menzognero, per evitare la punizione, entriamo così in un circolo vizioso da cui uscire sarà davvero difficile..

In questo caso se ci dirà la verità potremmo dire loro che siamo felici che ci abbia detto la verità, ma che il comportamento che ha messo in atto non lo condividiamo e che sarebbe stato peggio se ci avesse detto una falsità..

Ricordiamoci che le bugie sono UN’OCCASIONE PER CONOSCERE MEGLIO NOSTRO FIGLIO NEI SUOI BISOGNI: Cerchiamo di comprenderlo accogliendo il suo modo (non tropo lineare) di manifestare un bisogno.

IL RUOLO DEI GENITORI:

I GENITORI RIMANGONO IL MODELLO PRINCIPALE PER I FIGLI

siamo la loro guida nel bene e nel male

Bisognerebbe cercare di non mentire mai (nei limiti del possibile) ai figli anche quando loro pongono domande difficili o imbarazzanti. Se il genitore gli mente, il figlio si sente autorizzato a ripetere quel comportamento. I figli osservano molto i comportamenti dei genitori, se un genitore tende a mentire con gli altri (non solo con i figli) il bambino imparerà che quello è un comportamento lecito e lo metterà in atto ogni volta che si troverà in difficoltà.

Un esempio frequente di modello non funzionale è quando per creare una certa complicità con il bambino condividiamo un segreto e gli vietiamo di comunicarlo a un’altra persona “mi raccomando non lo dire al babbo che abbiamo comprato le caramelle”.. In questo caso gli stiamo insegnando che è lecito nascondere un comportamento per evitare una punizione.. inoltre stiamo screditando il ruolo genitoriale del padre.. un giorno potrà fare lo stesso con noi..

La sincerità, così come la menzogna, i bambini la imparano dall’esempio dei genitori!

Come sempre se un comportamento è occasionale non diventerà un modello.. sarà la modalità sistematica che porterà i nostri figli a seguire il nostro insegnamento.

QUANDO PREOCCUPARSI:

Bisogna preoccuparsi quando un figlio usa quotidianamente la bugia per relazionarsi con il mondo esterno o con il proprio mondo interno costituendosi un “mondo finto” fatto di illusioni, di sogni e di desideri poco legati alla realtà che sta vivendo … allora dovremo iniziare a chiederci il perché E GUIDARLO A TROVARE MODALITA’ ALTERNATIVE di soluzione … infatti LA FREQUENZA DEL COMPORTAMENTO MENZOGNERO E’ INVERSAMENTE PROPORZIONALE ALLA CAPCITA’ DI UNA PERSONA DI RISOLVERE UN PROBLEMA.

Se non riusciamo a farli uscire da questa bolla irreale in cui si trovano sarà opportuno rivolgersi ad un esperto per farsi aiutare.

 

Dott.ssa Cristina Jacchia

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